Del modo e delle ragioni di insegnare italiano col Pinocchio collodiano
Share |
DEL MODO E DELLE RAGIONI DI INSEGNARE ITALIANO COL PINOCCHIO COLLODIANO
di
Vito Lorenzo Dioguardi
Vicina a quella di De Amicis è la lingua «disaggettivata» del fiorentino Carlo Collodi, autore di Pinocchio (1880), libro-contenitore di enigmi e allegorie, bestiario morale attraversato da un lungo naso di legno indicante le «menzogne» delle parole[1], con queste parole Stefano Lanuzza descriveva nella sua Storia della lingua italiana (1994) l’esperienza linguistica di uno dei più fortunati e conosciuti libri della letteratura per ragazzi.
Tra i tanti meriti che si possono attribuire a capolavori come Cuore e Le avventure di Pinocchio, uno dei più importanti è appunto la loro esperienza linguista, la quale segnerà profondamente i lettori dell’epoca e la scrittura del Novecento.
I due autori manzoniani scrivevano in un fiorentino vivo che stava cominciando ad imporsi sempre più come lingua della nazione, in un’epoca in cui l’italiano non era ancora parlato dalla maggioranza degli Italiani.
Le vicende di redazione sono note. Dal 1881, per due anni, Carlo Lorenzini, in arte Collodi, inizia a scrivere una Storia di un burattino, pubblicata a puntante sul Giornale per i bambini, la quale vicenda si concludeva con l’impiccagione da parte di due briganti del birbante Pinocchio, il burattino refrattario alle regole.
Primo caso di libro “scritto” dai lettori (i miei piccoli lettori), invece, la redazione del giornale venne subissata di lettere che richiedevano la continuazione della storia. Così, per il clamoroso successo di pubblico, Collodi tornò a scrivere la storia intitolandola Le avventure di Pinocchio.
Il testo completo sarà invece edito in volume soltanto nel 1883.
Nei trentasei capitoli definitivi del Pinocchio, Collodi, con uno stile colloquiale ma anche brioso e coinvolgente, mostra tutte le potenzialità della lingua parlata a Firenze.
Se il Pinocchio viene costruito dall’autore capitolo per capitolo e se tra il Pinocchio I (la prima redazione, i primi 15 capitoli) e il Pinocchio II variano anche il numero delle pagine e il tema, è vero ciò che dice Isabella Pezzini riportando una tesi di Garroni, tanto da mitigarne la spietatezza e permettere di arrivare a parlarne come di un “romanzo per ragazzi”, e persino “educativo”[2].
Il testo ha un linguaggio semplice e chiaro, didattico[3]. L’intenzione dell’autore, infatti, non era solo quella di offrire a puntante la “storia di un burattino”, e della formazione come romanzo d’appendice ne restano tratti non solo nella lingua ma anche nella sequenza delle vicende, ma piuttosto di redigere una storia che parlasse ai ragazzi oltre Toscana e per questo si distinguesse per le molte frasi semplici e, ove complesse, per la costruzione principalmente paratattica.
ASPETTI DIDATTICI
Le Avventure di Pinocchio sono interessanti sia da un punto di vista narrativo che da un punto di vista linguistico.
Per dare soltanto un esempio della bravura scrittoria dell’esperto Collodi basterà analizzare il famoso incipit del romanzo, di per sé già una riscrittura totale del cliché del “C’era una volta”.
C’era una volta...
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.[4]
Ora, a livello linguistico, in questo esordio c’è da un lato tutta la complessità della lingua italiana ma d’altro anche tutta la sua ricchezza e la bellezza.
Con queste poche righe si potrebbe spiegare, infatti, la successione temporale dei verbi, i quali fanno partire l’azione al passato, la proiettano nel futuro e infine la stabiliscono in un quasi presente: l’imperfetto “era”, il futuro semplice “diranno” e il passato prossimo “avete sbagliato”.
In tre frasi chiare e comprensibili, Collodi ha racchiuso una delle regole grammaticali più complesse della lingua italiana, la coniugazione verbale.
Inoltre nel tono colloquiale c’è un invito alla lettura da parte di tutti. Con il tono colloquiale, dimesso, quotidiano, infatti, Collodi veicolava idee manzoniane rispetto alla questione linguistica che potrebbero essere definite di “democrazia linguistica”. Idee che propugnavano l’adozione del fiorentino vivo delle classi colte come lingua nazionale, unica e unificatrice.
Pur vera è la critica al manzonismo del linguista Graziadio Ascoli, secondo cui una lingua non poteva essere imposta dall’alto, ma Manzoni, De Amicis e Collodi rappresentano una triade perfetta, di diversa origine geografica, di rappresentanti del fiorentino vivo delle classi colte che, per grandi invenzioni letterarie, comincia a diventare comune tra gli abitanti della Penisola.
Come scrive Laura Ricci, esaminando “i capolavori dell’Italia unita” la genesi e la prima fortuna di Pinocchio e di Cuore si collocano fra l’anno della polemica Ascoli-Manzoni (1873) e il 1905, in cui si apre la minore ma ugualmente significativa querelle tra De Amicis e Croce[5].
Ancorché l’italiano insegnato nelle scuole vedrà, in seguito, prevalere l’ipotesi del linguista a quella dello scrittorie, tuttavia i modelli di un italiano ideale, di un italiano scolastico, rimarranno punti fermi per l’istruzione di molti decenni successivi.
D’altronde il fine ultimo del Pinocchio è un fine didascalico[6], condotto con un tono adeguato e immediato. Per questo in varie parti del romanzo questo tono agevolerà la lettura e l’interesse e con essi anche la fortuna del manzonismo. In definitiva del Pinocchio si potrebbe dire che è stato un I promessi Sposi per bambini o meglio ancora, il I promessi sposi che Manzoni avrebbe potuto scrivere per l’infanzia.
Questo aspetto dell’avvicinamento-coinvolgimento dei “piccoli lettori” influenzerà, e molto, diversi tratti della scrittura collodiana e, con essa, di coloro che in Collodi troveranno un anticipatore.
DEL MODO DI INSEGNARE ITALIANO CON PINOCCHIO
In una classe prima di scuola superiore di I grado si farebbero leggere soltanto alcuni capitoli del romanzo, rilevanti per la vicenda e per la lingua, mentre di quelli non letti l’insegnante farà un sunto.
I capitoli da leggere sarebbero il primo, il terzo, l’ottavo, il quindicesimo, il diciottesimo, venticinquesimo, il trentaseiesimo.
Con i ragazzi si sottolineeranno espressioni dialettali, termini propri del toscano ed espressioni proverbiali e si analizzeranno i cambi di registro.
TOSCANISMI
Espressioni:
Non so come andasse, ma il fatto gli è che …, Gli è il gran bene che vi voglio…, Star di balla, ciurlare nel manico, ridere a crepapancia, cuore di Cesare, pigliare un dirizzone, mi sta il dovere, rimaner di princisbecco, dolce di sale (sciocco), tornare una pittura, “un ragazzo per bene”.
Termini:
azzoppito, ammalizzito, abbeccedario, berciare, birba, garbare, boccuccia, chetarsi (tacere), moccichino (fazzoletto), trappolare (ingannare)…
Sarebbe interessante discutere dei termini e delle espressioni che sono scomparsi o sono in disuso o che rivestono oggi un significato diverso oppure, come il “per bene” finale, che sono stati usati nella formazione di altri sostantivi come perbenismo. Così risulterebbe importante fare capire la differenza tra essere un ragazzo per bene ed essere un perbenista.
PROVERBI
Non volendo fare la fine del piccione arrosto
IL CAMBIO DI REGISTRO
In alcuni rari momenti si assiste ad un cambio di registro, nei quali la variante diamesica della riproduzione di un testo scritto è portatrice di una lingua più ricercata.
Ad esempio nel trentatreesimo capitolo viene riportato il manifesto di uno spettacolo teatrale in cui Pinocchio, trasformato in asino, anzi in ciuchino, si esibirà.
Capitolo 33
“GRANDE SPETTACOLO
DI GALA
Per questa sera
AVRANNO LUOGO I SOLITI SALTI
ED ESERCIZI SORPRENDENTI
ESEGUITI DA TUTTI GLI ARTISTI
e da tutti i cavalli d’ambo i sessi
della compagnia
e più
sarà presentato per la prima volta
il famoso
CIUCHINO PINOCCHIO
detto
LA STELLA DELLA DANZA
Il teatro sarà illuminato a giorno”
È da sottolineare come, in maniera funzionale al suo fine didattico ma con contenuto sempre piacevole, Collodi spieghi che la lingua cambia anche tra parlato e scritto, a seconda del mezzo con cui io esprimo il mio pensiero (variante diamesica).
L’IRONIA DI COLLODI
Il più ricco di loro (della famiglia Pinocchio) chiedeva l’elemosina
(Mangiafoco chiedendo di Geppetto) E che mestiere fa? – Il povero.
DELLE RAGIONI DI INSEGNARE ITALIANO CON PINOCCHIO
ALCUNE CONSIDERAZIONI STORICHE
Considerando che l’analfabetismo tra gli anni 1881- 1883 era attestato al 55% per i maschi e al 70% per le femmine, si capirà come avere avuto un libro quale Pinocchio (e Cuore) abbia significato fare leggere la lingua nazionale ad un popolo di analfabeti e per i quali la lingua italiana era la lingua degli stranieri (in alcune regioni del Mezzogiorno).
Questo istruire divertendo ha assunto, quindi, inevitabilmente la funzione di ispirazione pedagogica per gli scrittori per l’infanzia della fine del XIX secolo. Si trattava di sollecitare nelle masse la simpatia per una norma impositiva di un potere politico ancora non universalmente accettato.
Si può dunque affermare che Pinocchio e Cuore abbiano aiutato in qualche grado la nuova Italia a risultare meno lontana, meno straniera a sé stessa, facendo della legge Coppino, la prima legge sulla scuola del nuovo regno, il punto di partenza per un riscatto morale e sociale senza confini, strappando i bambini al lavoro nei campi o nelle fabbriche in nome di una istruzione obbligatoria che era anche la possibilità di costruire una nuova società[7].
IL CONTESTO CONTEMPORANEO
Leggere oggi Le avventure di Pinocchio risulta ancora inimmaginabilmente agevole. Vi risalta la nettezza di un italiano da lezionario, comprensibile e persino semplice.
Tuttavia alcune espressioni si sono perse, altre, proprie del toscano, non sono mai passate alla comunità dei parlanti della Penisola.
Dunque, le ragioni di insegnare Italiano con Pinocchio sono quelle di far comprendere ai ragazzi da dove provenga la lingua nazionale, come una lingua nel corso del tempo possa cambiare e modificarsi, ma anche come abbia pur sempre dei modelli da seguire e dai quali non dovrebbe mai discostarsi troppo.
Si farebbe riscoprire, tramite la lettura di questo libro, la dolcezza e la musicalità della nostra lingua e si riuscirebbe a ragionare degli errori che si commettono in fase orale e scritta oggi.
E il tutto si otterrebbe più facilmente per mezzo di una storia che ancora oggi suscita consenso e piacevole attrazione.
Non si dimentichi, infatti, che il successo di Pinocchio aprì una vera e propria scuola, con quei racconti cui è stato dato il nome di pinocchiate, a partire da Il figlio di Pinocchio di Oreste Boni (a 10 anni dalla pubblicazione in volume dell’opera collodiana e a tre anni dalla dipartita dell’autore) e che fino a noi il capolavoro collodiano è stato rimaneggiato, cambiato, interpretato, parodiato e si è moltiplicato in tanti fumetti, tante scritture, tanti film e cartoni animati.
Se volessi trovare l’unica pecca ad un libro tanto bello sarebbe proprio quella dell’unità linguistica, cioè della mancanza di personalizzazione linguista dei personaggi, ma, in questo toscano di provincia, Geppetto, Pinocchio e la Fata Turchina ci meravigliano con lo stesso medesimo linguaggio. Eppure, l’abbiamo già affermato, Pinocchio è nato per insegnare qualcosa, tante cose, prima fra tutte una lingua nuova ad un nuovo Stato e questa uniformità è stata un punto di forza straordinario che ha permesso al romanzo di educare. Assieme all’intento pedagogico i tanti messaggi contro il ribellismo, contro un mondo parodiato negli animali furbi e malvagi o intelligenti e saggi, e l’impegno costante all’affermazione di una morale pubblica e privata che finisce con le parole “un ragazzo per bene”.
La redenzione del burattino passa anche per un’acquisizione di termini che va via via cacciando le parole della bugia, degli altisonanti toponimi poi rilevatisi trappole e inganni e sostituendoli con la scuola, il lavoro e il lessico di una società così diversa come quella italiana che si redimeva nel sogno dell’unica lingua.
Forse lo straordinario amore che si ha per Pinocchio è un amore per sé stessi, una volontà di vederlo salvo e di salvarsi con lui. E questo amore è stato espresso in una lingua multiforme, per certi versi, e univoca per altri.
Si dice che Collodi prendesse il nome di Pinocchio da una fonte vicina al paese in cui soggiornava.
Chissà se avesse presente, invece, quella voce del dizionario della Crusca riportata “profeticamente” nello Zibaldone da Giacomo Leopardi “Pina - pinocchio. V. Crus. Innamoracchiare, innamorazzare, amoreggiare.”[8]
Forse, una interpretazione fondata su questa base, potrebbe aprire ulteriori ampie e interessantissime ricerche sulla lingua di Collodi.
Macerata, 29 Maggio 2013 Vito Lorenzo Dioguardi
Bibliografia
- Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, Classici De Agostini 1996
- Stefano Lanuzza, Storia della lingua italiana, Tascabili economici Newton, 1994
- Le avventure di Pinocchio. Tra un linguaggio e l’altro, Segnature, a cura di Pezzini e Fabbri, 2002
- Giacomo Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Le Monnier, Firenze, 1921-1924
Cfr. Ornella Castellani Pollidori, Le avventure di Pinocchio, Pescia Fondazione Nazionale Carlo Collodi, 1983
∑
Articoli
v La Repubblica, Imparare l’italiano con Pinocchio. L’esperienza della scuola Abecedario, E. Stella, 30 Aprile 2013
∑
Filmografia
- Le avventure di Pinocchio (1972), di Luigi Comencini
∑
Sitografia
http://pinocchio-e-pinocchiate.blogspot.it/
http://www.letteraturadimenticata.it/Pinocchio.htm
NOTE
[1] Stefano Lanuzza, Storia della lingua italiana, Tascabili Economici Newton, Roma 1994, pag.64
[2] a cura di Isabella Pezzini e Paolo Fabbri, Le avventure di Pinocchio. Tra un linguaggio e l’altro., Meltemi editore 2002 Roma, collana Segnature, pag. 9-10
[3] Laura Ricci, I capolavori dell’Italia unita: Pinocchio e Cuore nel capitolo L’italiano per l’infanzia in Lingua e identità: una storia sociale dell’Italiano a cura di Trifone P., Carocci, Roma, 2009
[4] Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, De Agostini classici, Novara 1996, pag. 5
[5] cit. Laura Ricci… È fuor di dubbio che gran parte del gradimento di Pinocchio sia da attribuire alla naturale grazia della scrittura.
[6] cfr Castellani Pollidori, Le avventure di Pinocchio, Pescia Fondazione Nazionale Carlo Collodi, 1983 p.XIX in Laura Ricci cit. Collodi, insomma, intreccia a «un ordito immorale una trama morale».
[7] Cfr. cit. Laura Ricci... l’intenzione morale assuma gli oneri della “propaganda” alla legge Coppino, che per la prima volta, nel 1877, sanciva l’obbligo scolastico.
Lascio le mie riserve rispetto all’uso del termine “propaganda”.
[8] Giacomo Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Recanati 27 Aprile 1829.
Lo Zibaldone, con il titolo su indicato, fu scritto tra il 1817 e il 1832 ma pubblicato da una commissione presieduta da Giosué Carducci soltanto nel biennio 1898-1900. Collodi, che morì nel 1890, non poté dunque conoscere l’opera leopardiana, ma pure avrà potuto consultare la voce del Dizionario della Crusca.