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Blog letterario

Giuseppe Gioacchino Belli: il potere e il popolo attraverso la satira

Giuseppe Gioacchino Belli nacque a Roma il 7 Settembre 1791 e vi morì il 21 Dicembre 1863.

Letterato di poca fortuna e dalla vita privata alquanto canonica, cominciò, quasi per scherzo a comporre sonetti satirici. Da lì la sua vena ne portò alla produzione un numero iperbolico, 2200 circa, che formano l'opera letteraria in dialetto più nota d'Italia.

Non che non ce ne fossero di precedenti, che anzi erano abbondanti, e non che lo stesso Belli non si dicesse riconoscente di molti, ad esempio del milanese Carlo Porta, tuttavia perché Roma era una città particolare, perché la cultura romanesca è in tutto unica e irripetibile, perché il genio del Poeta ha saputo interpretare il suo popolo e il rapporto tormentoso tra popolo-Chiesa (istituzione) e Papa, i suoi Sonetti restano quel "monumento alla plebe romana" (com'egli stesso scrisse nella prefazione) che lo hanno onorato di gloria.

 

 

 

Analizziamo qualche sonetto.

 

 

1698. Er passa-mano

 

Er Papa, er Visceddio, Nostro Siggnore,

è un Padre eterno com’er Padr’Eterno.

Ciovè nun more, o, ppe ddí mmejjo, more,

ma mmore solamente in ne l’isterno.

Ché cquanno er corpo suo lassa er governo,

l’anima, ferma in ne l’antico onore,

nun va nné in paradiso né a l’inferno,

passa subbito in corpo ar zuccessore.

 

Accusí ppò vvariasse un po’ er cervello,

lo stòmmico, l’orecchie, er naso, er pelo;

ma er Papa, in quant’a Ppapa, è ssempre quello.

 

E ppe cquesto oggni corpo distinato

a cquella indiggnità, ccasca dar celo

senz’anima, e nun porta antro ch’er fiato.


4 ottobre 1835

 

L'ironia di questo sonetto si esprime dall'analisi tra esteriorità (carica, ruolo sociale) e interiorità (animo umano).

Si dice, scherzosamente, che il Papa ha un'anima eterna come quella del Padre Eterno e non muore, ovvero muore solo il suo corpo. Così, dice il Poeta, l'anima eterna del Papa passa al Papa successore, in una stasi ciclica dell'anima che fa del Papa una eterna conservazione di quell'anima lì che trasmigra in tanti corpi. Una sorta, dunque, di reincarnazione.

Così, dice, po' cambiare il pensiero, lo stomaco, le orecchie, l'esteriorità... ma

MA ER PAPA, IN QUANT'A PPAPA,è SEMPRE QUELLO.

Il Papa come Papa, nell'animo, nell'animo di conservatore, di benefattore dei ricchi, di cattivo monarca e cattivo sacerdote, è quello! Quasi per fatalità!

Da notare anche l'ironia dell' INDIGNITà, il corpo distinato a quella indignità (per dire dignità dice, in romanesco, indignità, come se l'essere Papa fosse una cosa non degna dell'uomo!).

 

Magistrale lezione di teologia e di ambiguità di lessico che restituisce quello che il Papa è stato per secoli e che, per fortuna, adesso pare non essere.


 

Del modo e delle ragioni di insegnare italiano col Pinocchio collodiano

DEL MODO E DELLE RAGIONI DI INSEGNARE ITALIANO COL PINOCCHIO COLLODIANO

di

Vito Lorenzo Dioguardi

 

Vicina a quella di De Amicis è la lingua «disaggettivata» del fiorentino Carlo Collodi, autore di Pinocchio (1880), libro-contenitore di enigmi e allegorie, bestiario morale attraversato da un lungo naso di legno indicante le «menzogne» delle parole[1], con queste parole Stefano Lanuzza descriveva nella sua Storia della lingua italiana (1994) l’esperienza linguistica di uno dei più fortunati e conosciuti libri della letteratura per ragazzi.

Tra i tanti meriti che si possono attribuire a capolavori come Cuore e Le avventure di Pinocchio, uno dei più importanti è appunto la loro esperienza linguista, la quale segnerà profondamente i lettori dell’epoca e la scrittura del Novecento.

I due autori manzoniani scrivevano in un fiorentino vivo che stava cominciando ad imporsi sempre più come lingua della nazione, in un’epoca in cui l’italiano non era ancora parlato dalla maggioranza degli Italiani.

Le vicende di redazione sono note. Dal 1881, per due anni, Carlo Lorenzini, in arte Collodi, inizia a scrivere una Storia di un burattino, pubblicata a puntante sul Giornale per i bambini, la quale vicenda si concludeva con l’impiccagione da parte di due briganti del birbante Pinocchio, il burattino refrattario alle regole.

Primo caso di libro “scritto” dai lettori (i miei piccoli lettori), invece, la redazione del giornale venne subissata di lettere che richiedevano la continuazione della storia. Così, per il clamoroso successo di pubblico, Collodi tornò a scrivere la storia intitolandola Le avventure di Pinocchio.

Il testo completo sarà invece edito in volume soltanto nel 1883.

Nei trentasei capitoli definitivi del Pinocchio, Collodi, con uno stile colloquiale ma anche brioso e coinvolgente, mostra tutte le potenzialità della lingua parlata a Firenze.

Se il Pinocchio viene costruito dall’autore capitolo per capitolo e se tra il Pinocchio I (la prima redazione, i primi 15 capitoli) e il Pinocchio II variano anche il numero delle pagine e il tema, è vero ciò che dice Isabella Pezzini riportando una tesi di Garroni, tanto da mitigarne la spietatezza e permettere di arrivare a parlarne come di un “romanzo per ragazzi”, e persino “educativo”[2].

 

Il testo ha un linguaggio semplice e chiaro, didattico[3]. L’intenzione dell’autore, infatti, non era solo quella di offrire a puntante la “storia di un burattino”, e della formazione come romanzo d’appendice ne restano tratti non solo nella lingua ma anche nella sequenza delle vicende, ma piuttosto di redigere una storia che parlasse ai ragazzi oltre Toscana e per questo si distinguesse per le molte frasi semplici e, ove complesse, per la costruzione principalmente paratattica.

 

ASPETTI DIDATTICI

 

Le Avventure di Pinocchio sono interessanti sia da un punto di vista narrativo che da un punto di vista linguistico.

 

Per dare soltanto un esempio della bravura scrittoria dell’esperto Collodi basterà analizzare il famoso incipit del romanzo, di per sé già una riscrittura totale del cliché del “C’era una volta”.

C’era una volta...

– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.

No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.[4]

 

Ora, a livello linguistico, in questo esordio c’è da un lato tutta la complessità della lingua italiana ma d’altro anche tutta la sua ricchezza e la bellezza.

Con queste poche righe si potrebbe spiegare, infatti, la successione temporale dei verbi, i quali fanno partire l’azione al passato, la proiettano nel futuro e infine la stabiliscono in un quasi presente: l’imperfetto “era”, il futuro semplice “diranno” e il passato prossimo “avete sbagliato”.

In tre frasi chiare e comprensibili, Collodi ha racchiuso una delle regole grammaticali più complesse della lingua italiana, la coniugazione verbale.

Inoltre nel tono colloquiale c’è un invito alla lettura da parte di tutti. Con il tono colloquiale, dimesso, quotidiano, infatti, Collodi veicolava idee manzoniane rispetto alla questione linguistica che potrebbero essere definite di “democrazia linguistica”. Idee che propugnavano l’adozione del fiorentino vivo delle classi colte come lingua nazionale, unica e unificatrice.

Pur vera è la critica al manzonismo del linguista Graziadio Ascoli, secondo cui una lingua non poteva essere imposta dall’alto, ma Manzoni, De Amicis e Collodi rappresentano una triade perfetta, di diversa origine geografica, di rappresentanti del fiorentino vivo delle classi colte che, per grandi invenzioni letterarie, comincia a diventare comune tra gli abitanti della Penisola.

Come scrive Laura Ricci, esaminando “i capolavori dell’Italia unita” la genesi e la prima fortuna di Pinocchio e di Cuore si collocano fra l’anno della polemica Ascoli-Manzoni (1873) e il 1905, in cui si apre la minore ma ugualmente significativa querelle tra De Amicis e Croce[5].

Ancorché l’italiano insegnato nelle scuole vedrà, in seguito, prevalere l’ipotesi del linguista a quella dello scrittorie, tuttavia i modelli di un italiano ideale, di un italiano scolastico, rimarranno punti fermi per l’istruzione di molti decenni successivi.

D’altronde il fine ultimo del Pinocchio è un fine didascalico[6], condotto con un tono adeguato e immediato. Per questo in varie parti del romanzo questo tono agevolerà la lettura e l’interesse e con essi anche la fortuna del manzonismo.  In definitiva del Pinocchio si potrebbe dire che è stato un I promessi Sposi per bambini o meglio ancora, il I promessi sposi che Manzoni avrebbe potuto scrivere per l’infanzia.

Questo aspetto dell’avvicinamento-coinvolgimento dei “piccoli lettori” influenzerà, e molto, diversi tratti della scrittura collodiana e, con essa, di coloro che in Collodi troveranno un anticipatore.

DEL MODO DI INSEGNARE ITALIANO CON PINOCCHIO

 

In una classe prima di scuola superiore di I grado si farebbero leggere soltanto alcuni capitoli del romanzo, rilevanti per la vicenda e per la lingua, mentre di quelli non letti l’insegnante farà un sunto.

I capitoli da leggere sarebbero il primo, il terzo, l’ottavo, il quindicesimo, il diciottesimo, venticinquesimo, il trentaseiesimo.

Con i ragazzi si sottolineeranno espressioni dialettali, termini propri del toscano ed espressioni proverbiali e si analizzeranno i cambi di registro.

 

TOSCANISMI

Espressioni:

Non so come andasse, ma il fatto gli è che …, Gli è il gran bene che vi voglio…, Star di balla, ciurlare nel manico, ridere a crepapancia, cuore di Cesare, pigliare un dirizzone, mi sta il dovere, rimaner di princisbecco, dolce di sale (sciocco), tornare una pittura, “un ragazzo per bene”.

 

Termini:

azzoppito, ammalizzito, abbeccedario, berciare, birba, garbare, boccuccia, chetarsi (tacere), moccichino (fazzoletto), trappolare (ingannare)…

Sarebbe interessante discutere dei termini e delle espressioni che sono scomparsi o sono in disuso o che rivestono oggi un significato diverso oppure, come il “per bene” finale, che sono stati usati nella formazione di altri sostantivi come perbenismo. Così risulterebbe importante fare capire la differenza tra essere un ragazzo per bene ed essere un perbenista.

 

PROVERBI

Non volendo fare la fine del piccione arrosto

IL CAMBIO DI REGISTRO

 

In alcuni rari momenti si assiste ad un cambio di registro, nei quali la variante diamesica della riproduzione di un testo scritto è portatrice di una lingua più ricercata.

Ad esempio nel trentatreesimo capitolo viene riportato il manifesto di uno spettacolo teatrale in cui Pinocchio, trasformato in asino, anzi in ciuchino, si esibirà.

 

Capitolo 33

“GRANDE SPETTACOLO

DI GALA

Per questa sera

AVRANNO LUOGO I SOLITI SALTI

ED ESERCIZI SORPRENDENTI

ESEGUITI DA TUTTI GLI ARTISTI

e da tutti i cavalli d’ambo i sessi

della compagnia

e più

sarà presentato per la prima volta

il famoso

CIUCHINO PINOCCHIO

detto

LA STELLA DELLA DANZA

Il teatro sarà illuminato a giorno”

 

È da sottolineare come, in maniera funzionale al suo fine didattico ma con contenuto sempre piacevole, Collodi spieghi che la lingua cambia anche tra parlato e scritto, a seconda del mezzo con cui io esprimo il mio pensiero (variante diamesica).

L’IRONIA DI COLLODI

Il più ricco di loro (della famiglia Pinocchio) chiedeva l’elemosina

(Mangiafoco chiedendo di Geppetto) E che mestiere fa? – Il povero.

 

DELLE RAGIONI DI INSEGNARE ITALIANO CON PINOCCHIO

 

ALCUNE CONSIDERAZIONI STORICHE

 

Considerando che l’analfabetismo tra gli anni 1881- 1883 era attestato al 55% per i maschi e al 70% per le femmine, si capirà come avere avuto un libro quale Pinocchio (e Cuore) abbia significato fare leggere la lingua nazionale ad un popolo di analfabeti e per i quali la lingua italiana era la lingua degli stranieri (in alcune regioni del Mezzogiorno).

Questo istruire divertendo ha assunto, quindi, inevitabilmente la funzione di ispirazione pedagogica per gli scrittori per l’infanzia della fine del XIX secolo.  Si trattava di sollecitare nelle masse la simpatia per una norma impositiva di un potere politico ancora non universalmente accettato.

Si può dunque affermare che Pinocchio e Cuore abbiano aiutato in qualche grado la nuova Italia a risultare meno lontana, meno straniera a sé stessa, facendo della legge Coppino, la prima legge sulla scuola del nuovo regno, il punto di partenza per un riscatto morale e sociale senza confini, strappando i bambini al lavoro nei campi o nelle fabbriche in nome di una istruzione obbligatoria che era anche la possibilità di costruire una nuova società[7].

 

IL CONTESTO CONTEMPORANEO

 

Leggere oggi Le avventure di Pinocchio risulta ancora inimmaginabilmente agevole. Vi risalta la nettezza di un italiano da lezionario, comprensibile e persino semplice.

Tuttavia alcune espressioni si sono perse, altre, proprie del toscano, non sono mai passate alla comunità dei parlanti della Penisola.

Dunque, le ragioni di insegnare Italiano con Pinocchio sono quelle di far comprendere ai ragazzi da dove provenga la lingua nazionale, come una lingua nel corso del tempo possa cambiare e modificarsi, ma anche come abbia pur sempre dei modelli da seguire e dai quali non dovrebbe mai discostarsi troppo.

Si farebbe riscoprire, tramite la lettura di questo libro, la dolcezza e la musicalità della nostra lingua e si riuscirebbe a ragionare degli errori che si commettono in fase orale e scritta oggi.

E il tutto si otterrebbe più facilmente per mezzo di una storia che ancora oggi suscita consenso e piacevole attrazione.

Non si dimentichi, infatti, che il successo di Pinocchio aprì una vera e propria scuola, con quei racconti cui è stato dato il nome di pinocchiate, a partire da Il figlio di Pinocchio di Oreste Boni (a 10 anni dalla pubblicazione in volume dell’opera collodiana e a tre anni dalla dipartita dell’autore) e che fino a noi il capolavoro collodiano è stato rimaneggiato, cambiato, interpretato, parodiato e si è moltiplicato in tanti fumetti, tante scritture, tanti film e cartoni animati.

Se volessi trovare l’unica pecca ad un libro tanto bello sarebbe proprio quella dell’unità linguistica, cioè della mancanza di personalizzazione linguista dei personaggi, ma, in questo toscano di provincia, Geppetto, Pinocchio e la Fata Turchina ci meravigliano con lo stesso medesimo linguaggio. Eppure, l’abbiamo già affermato, Pinocchio è nato per insegnare qualcosa, tante cose, prima fra tutte una lingua nuova ad un nuovo Stato e questa uniformità è stata un punto di forza straordinario che ha permesso al romanzo di educare. Assieme all’intento pedagogico i tanti messaggi contro il ribellismo, contro un mondo parodiato negli animali furbi e malvagi o intelligenti e saggi, e l’impegno costante all’affermazione di una morale pubblica e privata che finisce con le parole “un ragazzo per bene”.

La redenzione del burattino passa anche per un’acquisizione di termini che va via via cacciando le parole della bugia, degli altisonanti toponimi poi rilevatisi trappole e inganni e sostituendoli con la scuola, il lavoro e il lessico di una società così diversa come quella italiana che si redimeva nel sogno dell’unica lingua.

Forse lo straordinario amore che si ha per Pinocchio è un amore per sé stessi, una volontà di vederlo salvo e di salvarsi con lui. E questo amore è stato espresso in una lingua multiforme, per certi versi, e univoca per altri.

Si dice che Collodi prendesse il nome di Pinocchio da una fonte vicina al paese in cui soggiornava.

Chissà se avesse presente, invece, quella voce del dizionario della Crusca riportata “profeticamente” nello Zibaldone da Giacomo Leopardi Pina - pinocchio. V. Crus. Innamoracchiare, innamorazzare, amoreggiare.”[8]

Forse, una interpretazione fondata su questa base, potrebbe aprire ulteriori ampie e interessantissime ricerche sulla lingua di Collodi.

 

Macerata, 29 Maggio 2013                                                                          Vito Lorenzo Dioguardi


Bibliografia

  1. Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, Classici De Agostini 1996
  2. Stefano Lanuzza, Storia della lingua italiana, Tascabili economici Newton, 1994
  3. Le avventure di Pinocchio. Tra un linguaggio e l’altro, Segnature, a cura di Pezzini e Fabbri, 2002
  4. Giacomo Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Le Monnier, Firenze, 1921-1924

Cfr. Ornella Castellani Pollidori, Le avventure di Pinocchio, Pescia Fondazione Nazionale Carlo Collodi, 1983

Articoli

v La Repubblica, Imparare l’italiano con Pinocchio. L’esperienza della scuola Abecedario, E. Stella, 30 Aprile 2013

 

 

Filmografia

 

  • Le avventure di Pinocchio (1972), di Luigi Comencini

 

 

Sitografia

http://pinocchio-e-pinocchiate.blogspot.it/

http://www.letteraturadimenticata.it/Pinocchio.htm

http://www.storiadifirenze.org/?temadelmese=febbraio-1883-escono-%E2%80%9Cle-avventure-di-pinocchio%E2%80%9D-2

 


NOTE

[1] Stefano Lanuzza, Storia della lingua italiana, Tascabili Economici Newton, Roma 1994, pag.64

[2] a cura di Isabella Pezzini e Paolo Fabbri, Le avventure di Pinocchio. Tra un linguaggio e l’altro., Meltemi editore 2002 Roma, collana Segnature, pag. 9-10

[3] Laura Ricci, I capolavori dell’Italia unita: Pinocchio e Cuore nel capitolo L’italiano per l’infanzia in Lingua e identità: una storia sociale dell’Italiano a cura di Trifone P., Carocci, Roma, 2009

[4] Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, De Agostini classici, Novara 1996, pag. 5

[5] cit. Laura Ricci… È fuor di dubbio che gran parte del gradimento di Pinocchio sia da attribuire alla naturale grazia della scrittura.

[6] cfr Castellani Pollidori, Le avventure di Pinocchio, Pescia Fondazione Nazionale Carlo Collodi, 1983 p.XIX  in Laura Ricci cit. Collodi, insomma, intreccia a «un ordito immorale una trama morale».

[7] Cfr.  cit. Laura Ricci... l’intenzione morale assuma gli oneri della “propaganda” alla legge Coppino, che per la prima volta, nel 1877, sanciva l’obbligo scolastico.

Lascio le mie riserve rispetto all’uso del termine “propaganda”.

[8] Giacomo Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Recanati 27 Aprile 1829.

Lo Zibaldone, con il titolo su indicato, fu scritto tra il 1817 e il 1832 ma pubblicato da una commissione presieduta da Giosué Carducci soltanto nel biennio 1898-1900. Collodi, che morì nel 1890, non poté dunque conoscere l’opera leopardiana, ma pure avrà potuto consultare la voce del Dizionario della Crusca.

 

Niccolò Machiavelli e l'amministrazione dello Stato

Il Machiavelli è la coscienza e il pensiero del secolo, la società che guarda in sè e s'interroga

e si conosce; è la negazione più profonda del medio evo, e insieme l'affermazione più chiara de'

nuovi tempi; è il materialismo dissimulato come dottrina, e ammesso nel fatto e presente in tutte le

sue applicazioni alla vita.

(F. De Sanctis - da Storia della letteratura italiana 1860)



Niccolò Machiavelli (Firenze, 3 Maggio 1469- Firenze, 21 Giugno 1527)


1513- 2013. 500 anni fa Niccolò Machiavelli scrisse la prima vera opera politica dell'umanità, il De Principatibus (Sui principati), opera nota col nome Il principe.

Scritto in pochi mesi di intenso studio dei classici, Il principe nasce come opera d'esilio. Infatti, se Machiavelli aveva fatto diretta esperienza delle cose del governo, essendo stato segretario della Repubblica fiorentina tra il 1498 e il 1512, quando i Medici tornarono in città scacciarono tutti gli intellettuali collusi con i ribelli. Machiavelli fu spedito a Sant'Adrea di Percussina, località di San Casciano di Val di Pesa.

La casa che lo ospitò ha nome Albergaccio. Proprio da qui spediva le innumerevoli lettere agli amici che confortavano una vita oltremodo forzata. Ed è proprio una di queste lettere che ci dà notizia della composizione dell'opera, quella scritta il 10 Dicembre 1513 e indirizzata al suo amico Francesco Vettori (ambasciatore della Repubblica a Roma).


LA GRANDEZZA DE IL PRINCIPE

La grandezza de Il principe è, innanzitutto, quella delle grandi opere della letteratura mondiale, essere senza tempo. La riflessione filosofico-politica condotta da Niccolò è assolutamente attuale (se si eccettuano evidenti azioni e pensieri dovute alla società e alla contingenza del secolo, cosa ineliminibile se uno scrittore è prima di tutto un osservatore).

Con una dedica iniziale e ventisei capitoli, i titoli dei quali scritti in latino e il testo in fiorentino, è un'opera che concepita in modo razionale e che affronta vari problemi e questioni.

DEDICA

NICOLAUS MACLAVELLUS AD MAGNIFICUM LAURENTIUM MEDICEM.

[Nicolò Machiavelli al Magnifico Lorenzo de’ Medici]

Sogliono, el più delle volte, coloro che desiderano acquistare grazia appresso uno Principe,farseli incontro con quelle cose che infra le loro abbino più care, o delle quali vegghino lui piùdelettarsi; donde si vede molte volte essere loro presentati cavalli, arme, drappi d'oro, prete preziosee simili ornamenti, degni della grandezza di quelli. Desiderando io adunque, offerirmi, alla vostraMagnificenzia con qualche testimone della servitù mia verso di quella, non ho trovato intra la miasuppellettile cosa, quale io abbia più cara o tanto esístimi quanto la cognizione delle azioni delliuomini grandi, imparata con una lunga esperienzia delle cose moderne et una continua lezione delleantique: le quali avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate et esaminate, et ora in unopiccolo volume ridotte, mando alla Magnificenzia Vostra. E benché io iudichi questa opera indegnadella presenzia di quella, tamen confido assai che per sua umanità li debba essere accetta,considerato come da me non li possa esser fatto maggiore dono, che darle facultà di potere inbrevissimo tempo intendere tutto quello che io in tanti anni e con tanti mia disagi e periculi hoconosciuto. La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample, o di parole ampullose emagnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco con li quali molti sogliono le lorocose descrivere et ornare; perché io ho voluto, o che veruna cosa la onori, o che solamente la varietàdella materia e la gravità del subietto la facci grata. Né voglio sia reputata presunzione se uno uomodi basso et infimo stato ardisce discorrere e regolare e' governi de' principi; perché, cosí come coloroche disegnono e' paesi si pongano bassi nel piano a considerare la natura de' monti e de' luoghi alti,Principe - Niccolò Machiavelli6e per considerare quella de' bassi si pongano alto sopra monti, similmente, a conoscere bene lanatura de' populi, bisogna essere principe, et a conoscere bene quella de' principi, bisogna esserepopulare.Pigli, adunque, Vostra Magnificenzia questo piccolo dono con quello animo che io lomando; il quale se da quella fia diligentemente considerato e letto, vi conoscerà drento uno estremomio desiderio, che Lei pervenga a quella grandezza che la fortuna e le altre sue qualità lipromettano. E, se Vostra Magnificenzia dallo apice della sua altezza qualche volta volgerà li occhiin questi luoghi bassi, conoscerà quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignitàdi fortuna.

 

 

(Sepolcro di Machiavelli in Santa Croce a Firenze, 1787, con la dedica "Tanto nomini nullum par elogium "A tanto nome (a così grande nome) nessun elogio è pari!").

 

 

IL TITOLO DELL'OPERA, OVVERO QUANDO TRADURRE VUOL DIRE INVENTARE


Essendo chi scrive convinto da anni che la traduzione dei libri degli antichi, salvo eccezioni di traduttori illustri e fedeli al testo piuttosto che al capriccio personale, ma non più letti perché "scrivono difficile", per dimostrare a te, caro lettore, come i libri antichi siano oggi reinventati ti sottopongo un caso eclatante.

Il titolo dell'opera di Machiavelli è De principatibus.

Ora, l'ablativo plurale di principatus è principatibus e il de consacra la scelta dell'ablativo introducendo un complemento di argomento.

La traduzione letterale, dunque, sarà Sui principi, avendo l'autore omesso di scrivere Trattato (Saggio) sui principati.

Tuttavia, come viene venduto in libreria, come viene catalogato in biblioteca, come è noto in tutto il mondo questo lavoro? Come, Il principe.

Bene, tale semplice invenzione di un titolo, che non è assolutamente l'originario, stravolge l'intenzione dell'autore e con essa anche tutta la filosofia della scrittura e indirizza il lettore a focalizzarsi principalmente su quell'esempio che prende l'ultima parte del libro, su quel Cesare Borgia che, a mio giudizio, lungi dall'essere veramente lodato, è fatto passare per micco, da Machiavelli, che quasi si compiace per la sua ventura e per la sua spietatezza finite così tragicamente e, se per certi versi loda il carattere risoluto del condottiero, dall'altra resta sempre il discorso che egli debba essere più amato che odiato, più rispettato che temuto. Lo si capisce chiaramente leggendo attentamente l'esortatio finale.


Per cui, a cinquecento anni dal libro forse sarà molto difficile tornare a chiamare Sui principati quello che la vulgata ha stabilito coattamente essere Il principe, pure questo ci aiuti a capire con quanto amore e quanta dedizione dobbiamo tornare a studiare gli antichi e con quanto rispetto per quello che essi volevano dirci e poco per coloro che fanno dir loro quello che essi stessi vorrebbero avessero detto.

 

(Avvertenza: di logica conseguenza, se all'inizio si è scelto di indicare l'opera con il nome consueto de Il Principe, qui d'ora innanzi la sin indicherà come il De principatibus o Sui principati, perché quando si sia accertato un errore, abbenché sia commesso da tutti, rimane un errore e io non posso sopportare che le cose nate da palese errore diventino legge, quando si possa ancora recuperare).


 

I. QUOT SINT GENERA PRINCIPATUUM ET QUIBUS MODIS ACQUIRANTUR

Quali siano i generi di principati e quali siano i modi di acquistarli

 

Brevissima introduzione che assomma i punti di cui tratterà l'opera: che i governi mai stati al mondo sono o repubbliche o principati. Che i principati possono essere nuovi o ereditati (ecc...).

Machiavelli, tra quelli nuovi del tutto, fa l'esempio degli Sforza a Milano e, tra quelli nuovi nati come membri di altri stati, il Regno di Napoli dipendente dalla corona spagnola.

 

 

II. DE PRINCIPATIBUS HEREDITARIIS

Sui principati ereditari

 

Machiavelli dice che gestire un principato ereditario è alquanto facile.

"se tale principe è di ordinaria industria",

in sostanza, ho commette qualche sciocchezza oppure deve amministrare soltanto quanto fatto dagli antenati

"perché basta solo non preterire gli ordini de' sua antinati".

 

Inoltre afferma che il popolo tende a dimenticare le proteste di un principe passato quando vi sia la "mutazione" con la successione di un altro.

 

III. DE PRINCIPATIBUS MIXTIS

Sui principati misti

 

"Ma nel principato nuovo consistono le difficultà".

Attenzione, qui Machiavelli introduce i primi elementi di asperrima polemica che diventeranno caratteristiche nell'opera.

" perché sempre, ancora che uno sia fortissimo in su li eserciti, ha bisogno del favore de' provinciali a entrare in una provincia. Per queste ragioni Luigi XII...".

La polemica è contro "queste populi che gli avevano aperte le porte (a Luigi XII)..." e che "trovandosi ingannati della opinione loro...".

 

La credulità del popolo milanese, che sarà poi del popolo italiano tutto.

 

Il capitolo, lungo, continua premettendo una differenza. Machiavelli dice, se uno vuole conquistare il principato di un altro essendo quel popolo della stessa sua lingua e degli stessi suoi costumi è abbastanza facile. E fa gli esempi della Borgogna, della Bretagna, della Guascogna e della Normandia (differenti di poco nella lingua ma identiche nei costumi).

 

Caso diverso è acquistare un principato il cui popolo ha lingua e costumi profondamente diversi.

 

Così torna ad analizzare le colpe di Luigi XII che aveva perduto e riacquistato Milano per due volte ma che aveva commesso una serie di errori.

(Nel mezzo fa una digressione sul modo di mantenere le nuove acquisizioni con "colonie" alla maniera dei Romani).

Se era stato aiutato da Veneziani a prendere Milano, perché mai ha aiutato il Papa a invadere la Romagna anziché aiutare i propri amici?

 

 

 

Luigi XII di Francia

(Luigi XII)

"Aveva dunque fatto Luigi questi cinque errori: spenti e' minori potenti; accresciuto in Italia potenza a uno potente (il Papa); messo in quella uno forestiere potentissimo (la Spagna); non venuto ad abitarvi; non vi messo colonie".

Una bocciatura in toto.

Il finale di capitolo è altamente interessante: si accenna ad una discussione che Machiavelli ha avuto con il cardinale Roano a Nantes: dicendomi el cardinale di Roano che gli italiani non si intendevano della guerra, io gli risposi che' franzesi non si intendevano dello stato; perché, s'è se ne 'ntendessino, non lascerebbono venire in tanta grandezza la Chiesa".

Un'accusa precisa e una battuta che rinvendica l'orgoglio di italianità, da parte di Machiavelli.

 

Secondo aspetto, l'introduzione del personaggio del duca Valentino Cesare Borgia, figura che attirerà l'attenzione di Machiavelli nei capitoli successivi.

 

IV CUR DARII REGNUM QUOD ALEXANDER OCCUPAVERAT A SUCCESSORIBUS SUIS POST ALEXANDRI MORTEM NON DEFECIT

Come il regno di Dario, che Alessandro avevano occupato, non si disfece dai suoi successori dopo la morte di Alessandro

 

Capitolo storico che analizza la fortuna delle monarchie nate dai generali di Alessandro.

 

V. QUOMODO ADMINISTRANDAE SUNT CIVITATES VEL PRINCIPATUS QUI ANTE QUAM OCCUPARENTUR SUIS LEGIBUS VIVEBANT

In quale modo siano da amministrare le città o il principato che prima di essere occupati vivevano delle proprie leggi

 

 

VI DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ARMIS PROPRIIS ET VIRTUTE ACQUIRUNTUR

Sui principati nuovi che con le armi proprie e con la virtù sono stati acquistati

 

VII. DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ALIENIS ARMIS ET FORTUNA ACQUIRUNTUR

Sui principati nuovi che con le altrui armi e con la fortuna sono stati acquistati

 

VIII. DE HIS QUI PER SCELERA AD PRINCIPATUM PERVENERE

Di quelli che per la scelleratezza sono pervenuti al principato

 

IX. DE PRINCIPATU CIVILI

Sul principato civile

 

X. QUOMODO OMNIUM PRINCIPATUUM VIRES PERPENDI DEBEANT

In quale modo in ogni principato le forze debbano essere considerate

 

XI. DE PRINCIPATIBUS ECCLESIASTICIS

Sui principati eccelsiastici


XII. QUOT SUNT GENERA MILITIAE ET DE MERCENARIIS MILITIBUS

Quanti siano i generi della milizia e sulle milizie mercenarie

 

XIII. DE MILITIBUS AUXILIARIIS MIXTIS ET PROPRIIS

Sui militi ausiliari, sui misti e sui propri

 

XIV. QUOD PRINCIPEM DECEAT CIRCA MILITIAM

Quello che il principe necessiti circa la milizia

 

XV. DE HIS REBUS QUIBUS HOMINES ET PRAESERTIM PRINCIPES LAUDANTUR AUT VITUPERANTUR

Su quelle cose per le quali gli uomini, e massime i principi, sono lodati o vituperiati

 

XVI. DE LIBERALITATE E PARSIMONIA

Sulla liberalità e sulla parsimonia

 

XVII. DE CRUDELITATE ET PIETATE ET AN SIT MELIUS AMARI QUAM TIMERI VEL E CONTRA

Sulla crudeltà e sulla pietà e se sia meglio essere amato che essere temuto o il contrario

 

XVIII. QUOMODO FIDES A PRINCIBUS SIT SERVANDA

In quale modo la fede al principe sia conservata

 

XIX. DE CONTEMPTU ET ODIO FUGIENDO

Sulla contentezza e sul fuggire dall'odio

 

XX. AN ARCES ET MULTA ALIA QUAE QUOTIDIE A PRINCIBUS FIUNT UTILIA AN INUTILIA SINT

Se le fortezze e molte altre cose quotidiane da principi fatte siano utili o inutili

 

XXI. QUOD PRINCIPEM DECEAT UT EGREGIUS HABEATUR

Quello che pertenga il principe affinché abbia ad essere egregio (stimato)

 

XXII. DE HIS QUOS A SECRETIS PRINCIPES HABENT

Su coloro che come segretari i principi hanno

 

XXIII. QUOMODO ADULATORES SINT FUGIENDI

In quale modo gli siano fatti fuggire gli adulatori

 

XXIV. CUR ITALIAE PRINCIPES REGNUM AMISERUNT

Perché i principi d'Italia hanno perso il regno

 

XXV. QUANTUM FORTUNA IN REBUS HUMANIS POSSIT ET QUOMODO ILLI SIT OCCURENDUM

Quanto la fortuna possa nelle cose umane e in che modo a essa si resista

 

XXXI. EHORTARIO AD CAPESSANDAM ITALIAM IN LIBERTATEMQUE A BARBARIS VINDICANDAM

Esortazione a riprendere l'Italia in libertà e vendicarla dai Barbari

 


 

L'eccezione Pier Paolo Pasolini

In un'Italia post-fascista, in cui la contrapposizione era sempre più tra i moderati e i comunisti, coloro che volevano continuare nell'utopia della rivoluzione alla bolscevica, la normalità consisteva nell'appartenenza. L'appartenere o a DC o a PCI era al tempo stesso ruolo sociale e passaporto individuale per future carriere eccetera eccetera.

Poche sono state le eccezioni a questo modo di pensare, a questo schieramento dualistico, in cui ognuna della parti era il "bene" e l'altro il "male".

E anche tra le eccezioni, forse nessuno è stato così significativo e carismatico come Pier Paolo Pasolini.

Pasolini vive un'esistenza romanzesca (per sua stessa confessione - vedi l'introduzione "Al lettore nuovo" nel volume Poesie della Garzanti), al centro della quale mette il dovere civile di non appartenere, o meglio di appartenere agli emarginati o a coloro che la grande politica, la finanza, la raffinata aristocrazia e la rampante e spensierata borghesia non vedeva. Quella sorta di vivi-morti, di dimenticati, di "esiliati" alle porte di Roma che erano i borgatari. Roma, oggi ma più all'epoca, era circondata da grandi, affollate, misere, dimenticate borgate che facevano da contraltare, col loro degrado, alla Roma anni '50 di Vacanze Romane, dei monumenti, dei turisti e dei palazzi del potere.

Se il centro di Roma era abitato da nobili capitolini e sempre più da italiani di ogni regione che venivano a colonizzare la città o da famiglie borghesi, con un reddito certo, la televisione in casa e l'auto per le gite fuoriporta, le borgate erano sporche, malconce, luoghi della malavita, della prostituzione, del gioco d'azzardo e viverci equivaleva portare la condanna di una vita di stenti o di violenza.

Quando Pier Paolo, bolognese, friulano d'adozione, viene a contatto con questa miseria e con questa realtà (perché di realtà dobbiamo parlare, benché ad arte ignorata), beh, si passa una mano sulla coscienza.

Lo dice chiaramente, nell'Introduzione citata. Dice che quando si trasferisce, disoccupato, in una casa vicino Rebibbia,comincia a cambiare la sua poesia (Che in seguito definirà "vecchia poesia").

In quel contesto nascono capolavori poetici come Le ceneri di Gramsci e narrativi come Ragazzi di vita.

In particolare con la narrativa egli riesce a dare un taglio descrittivo forte, linguisticamente ma anche caratterialmente, a quei ragazzi che imparava a conoscere bene.

Da queste considerazioni, si può meglio capire il suo insistere sull'ottusità del perbenismo borghese o sull deriva del potere che riusciva a dimenticare tante famiglie e tanti ragazzi.

 

 

La poesia civile di Pasolini, dunque, rappresenta un'eccezionalità perché egli non vi è nato, ma, conosciuta quella condizione, vi ha aderito.

Stretto in una famiglia borghese, egli ha trovato il suo posto nel mondo tra i borgatari, si è scoperto uno di loro.

 

Pasolini si romanizza, diventa un borgataro e i borgatari sono i popolani delle sassaiolate, delle cortellate, dei ceffoni e degli sputi. I legionariacci di sempre. I Romani veri.

Con questa premessa, Pasolini si romanizza e si plebeizza allo stesso tempo, diventando così voce di quel popolo senza italiano, mente di quel gregge di ignoranti.

Diventa il reale poeta del popolo. Non è uno di quelli che canta il popolo dal salotto o che dal popolo è partito ma poi, finalmente, è arrivato... No! Pasolini è un Dante all'inferno. Scende tra gli ultimi!

Questo gesto è potente, tanto per il moralismo cattolico che per la prosopopea di partito, di un Pci sempre meno operaio e sempre più "televisivo".

Ce lo dice quel ritorno alle origini segnato da Le ceneri di Gramsci.

Il poemetto in questione è stato scritto già nel 1954.

Siamo poco dopo la guerra. Pasolini rende onore alla lapide sotto cui riposa il fondatore del Partito Comunista e la ritrova in periferia, a Porta San Paolo, luogo di acerrimi scontri tra la Resistenza romana e i tedeschi.

La canzone omaggia il celebre statista sardo seguendo una divisione schematica in parti:

I - Dopo un'apertura descrittiva, "non padre ma umile fratello" chiama Gramsci. La prima parte si chiude con un garzone nelle officine di Testaccio che picchia il martello.

II - Descrizione del cimitero e della fine di tutti, persino dei "miliardari".

III- Il ritrovamento tra "estranei morti" (Gramsci è infatti seppellito nel cimitero anglosassone.

Lo stile si fa vibrante di passione e di emozione. Sino a quando Pasolini non confessa un disagio.

IV - Il disagio è "lo scandalo del contraddirmi, dell'essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle viscere".

Come i poveri povero, mi attacco/ come loro a umilianti speranze,/ come loro per vivere mi batto/ ogni giorno.

 

V-Ancora sensazioni e percorso nella miseria attuale dell'Italia attraverso la veloce descrizione di più luoghi;

VI-Descrizione della vita dei giovani operai e chiusa.

"Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?".

La grandezza di questa chiusa sta nella data. Ribadisco, è il 1954. Il 1954! Pasolini già ritiene conclusa l'esperienza (la storia) dell'avventura comunista.

Lo storicismo marxista-gramsciano, di tempi che maturano verso la rivoluzione e la ribellione delle masse, è già concluso, secondo Pasolini. La storia gli darà ragione. Nonostante il '68. Nonostante lo stragismo. Nonostante le BR.

Aveva previsto come sarebbe andata. Questa elegia in memoria di Gramsci rappresenta, dunque, la delusione storica dinnanzi a fatti d'Italia che sono già determinati, che non muteranno.

Pasolini ne è conscio.

 

La Costituzione Italiana: la più bella ma anche la più inattuale

Se dovessi scegliere un sottotitolo per questo pezzo, scriverei: "Quello che non ci piace della Costituzione!".

Appena il mese scorso Roberto Benigni ha magnificato la Costituzione della Repubblica Italiana in una serata Rai. Non l'ho seguita direttamente (ero in viaggio) ma dai commenti devo ammettere che, come al solito, con un linguaggio forbito ma divertente, con una spiccata propensione alla serietà giocosa delle cose, l'attore toscano sembra avere fatto passare il messaggio che la Costituzione Italiana è stato il miracolo politico del dopoguerra.

Tuttavia, se coloro che l'hanno scritta, a pena di sacrifici, lotta, resistenze, deportazioni, la miseria dell'ultimo fascismo e la barbarie della guerra, se coloro che l'hanno scritta avesse saputo che poco più di settant'anni dopo si sarebbe giunti a questo punto, io credo che non l'avrebbero scritta così.

La Costituzione è un patto sacro tra i cittadini, per la civile, armonica, prospera convinvenza. In più, essa segna la direzione verso cui gli sforzi di tutti dovrebbero tendere.

La Costituzione Italiana ha rappresentato, in quei tempi, la maturità politica della classe dirigente italiana e del popolo italiano tutto.

Ombre rimangono, circa lo scivolamento dalla monarchia ad una dittatura esterna e circa il passaggio "elettorale" dalla monarchia alla Repubblica.

Partendo dall'assunto che chiunque raccoglie ciò che semina, è significativo come il popolo italiano quasi continuasse a scegliere la Monarchia (in quel 1946), nonostante l'evidenza del tradimento dei Savoia!

Lasciare Roma, scappare, non fu altamente indecoroso per quei tempi e per la Storia tutta di una nazione?

Vinse la Repubblica (manu americana o meno).

L'Assemblea Costituente lavorò alacremente per quasi due anni. Il 22 Dicembre essa l'approvò e cinque giorni dopo il Presidente provvisorio De Nicola la promulgò. La Costituzione Italiana entrò in vigore il 1 Gennaio 1948.

Ora, alcune considerazioni:

a) Una Costituzione è figlia dei tempi - quindi non è legge eterna.

Poiché il mondo, nel secondo Novecento, ha notevolmente accelerato ogni processo, con la rivoluzione informatica, (cosa non prevedibile, evidentemente) bisogna pensare che alcuni di quei pensieri così alti del '48 siano oggi INATTUALI!

b) La Costituzione era frutto di una organicità di parti e partiti eterogenei.

Nata in situazione di emergenza, ma anche di profonda convergenza nello spirito antifascista dei tempi, essa era chiaramente un compromesso. Se la Dc, il Pci o il Psi avessero avuto potere maggioritario e maggiore libertà forse essa sarebbe stata scritta con parole diverse (fermo restando i principi di libertà).

 

Ad esempio, l'articolo 1

L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

A parte le nozioni politiche principali per cui una Repubblica (Res Publica- cosa pubblica) è un concetto ideale e democrazia (demo cratos - popolo, potere) è un concetto politico e pratico, c'è da rimarcare l'unicità dell'esperimento italiano, quel FONDATA SUL LAVORO che era stato fortemente voluto dai partiti di Sinistra e che inquadrava in una sacralità del lavoro e nella dignità di esso, tutta una futura strategia e psicologia operaia che solo in parte fu formata e tenne.

Quel fondata sul lavoro equivale a dire, a seconda del lavoro di ognuno ognuno avrà, che ognuno aveva il diritto sacrosanto al lavoro, che dal lavoro scaturisce vita dell'individuo, fonte di ricchezza per lo Stato e organizzazione civica delle categorie.

Questo primo articolo è l'elemento indiscutibilmente più sano, innovativo e rivoluzionario che io manterrei, della Costituzione.

 

c) la politica italiana, dopo la scrittura "ideale" della Costituzione, nella pratica si è macchiata dei più diversi crimini. Se essi sono nati con la Democrazia Cristiana, sono proseguiti con il Partito Socialista e con Forza Italia o con i partitucoli sinistroidi di fine '900 e inizio Duemila, oggi è uno scandalo e insieme fonte di vergogna, di deprecazione, di aridimento e frustrazione, vedere che la politica è stata ridotta a mercenarismo.

 

Questo, a mio giudizio, per la sottocultura italiana:

1) Gli Italiani sono individualisti;

2) Anche per colpa di alcuni esponenti delle istituzioni religiose, per la perdita dello spirito autenticamente cristiano che ha ispirato molti santi e molti eventi del passato nazionale;

3) Per la finzione di alcune parole che, sempre vendute per vere, sono state esautorate di significato: libertà, bene pubblico...

4) Per la volontaria mancanza di EDUCAZIONE del popolo (concetto mazziniano al quale sono legato e che è per me cardinale per una ipotetica rinascita del Paese!).

 

In particolare, oltre l'accrescimento esponenziale di casi criminali nella società civile, l'imbarbarimento dei parlamentari, cui nessun crimine è estraneo, l'Italia oggi è falsamente Repubblica, falsamente democratica, per nulla fondata sul lavoro.

Ma oltre le varie e delittuose mancanze e i vari reati di cui la classe politica nazionale e locale si è macchiata, credo che l'attualità ultima ci dica meglio e definitivamente chi siamo.

 

Il tg1 riporta la notizia che al Viminale sono stati consegnati ben 213 simboli, concorrenti alle prossime elezioni politiche.

213 partiti, movimenti o liste civiche. 213!

Oltre l'ennesima schifosissima indecenza italiota della riproduzione similare dei simboli di alcuni partiti e movimenti (Ingroia, M5s, Pdl, Lista civica con Monti), l'aspetto deprecabile è proprio che l'Italia declini la libertà in questo modo, con il concorso di 213 simboli.

 

Questo in base all'articolo 49 della Costituzione Italiana che recita:

Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.

 

Io sono per l'abrogazione di questo articolo della Costituzione e per lo stabilimento di un sistema bipartitico SINISTRA - DESTRA (come in America e in Inghilterra) per cui l'italiano del futuro si schieri o qui o lì e non al centro, al centro più spostato da una parte o dall'altra.

Questa semplificazione condurrebbe già più ad una maggiore consapevolezza dell'elettore, ad una maggiore chiarezza del sistema e ad una significativa utilità del singolo voto.

 

SE L'OBBLIGO MORALE è QUELLO DI ESERCITARE IL DIRITTO DI VOTO, DI FATTO MI SENTO OFFESO E PROFONDAMENTE SCHIAVIZZATO DALLA MANCANZA DI VERA LIBERTà DA PARTE DEL SISTEMA POLITICO ITALIANO.

La presentazione di 213 simboli non è libertà, è schifosissima corruzione, è perpetuazione di interessi locali o personali, piccoli e no.

Io sono per la libertà che nasce dalla semplicità, dalla chiarezza e dall'assunzione di responsabilità.

E spero che un giorno avvenga, che io abbia gli occhi aperti o chiusi.

 
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