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Blog letterario

Girolamo Savonarola e il trattato sul governo di Firenze

 

Girolamo Savonarola (Ferrara, 21 Settembre 1452, Firenze, 23 Maggio 1498)

Girolamo Savonarola fu un frate domenicano del Rinascimento, figura complessa e affascinante.

Complessa perché da frate attaccò la Chiesa e coloro che nella Chiesa usavano la religione e la fede della gente per interessi personali.

Affascinante perché ha teorizzato un modo di tenere lo Stato di Firenze che poi ha attuato, instaurando una Repubblica scomoda ai maggiorenti e forse non troppo delicata o troppe resoluta, ma che pure voleva svellere tutte quelle ipocrisie e quella reiterate e stolte usanze di sottomissione e di genuflessione che macchiavano il Cristianesimo e infossavano anche la libertà dell'uomo.

 

A parte la sua vicenda storica, con i suoi famosi e seguiti sermoni, la divisione della città in Frateschi o Piagnoni (i simpatizzanti di Savonarola) e in Arrabbiati o Palleschi (i fedeli ai Medici), la cacciata dei Medici e di alcune famiglie, l'instaurazione della Repubblica e la fine, tradito dai suoi stessi amici, la sua condanna al rogo, a me interessa approfondire le sue virtù letterarie.

 

Fra la fine del 1497 e l'inizio del 1498 (quando è Gonfaloniere Giuliano Salviati, secondo quanto riportato nel titolo dell'opera) Savonarola scrive e pubblica il Trattato circa el reggimento e governo della città di Firenze.


Credo, a questo punto, che Machiavelli, quando scriverà il suo De Principatibus nel 1513, non potrà non avere avuto richiamo a questo scritto del Savonarola.


Già nel Proemio dichiara di non volere scrivere del governo di regni e governi in generale, avendolo già fatto in tanti e bene, non essendo questo altro che multiplicare li libri, senza utilità. Quindi espone la divisione del Trattato in tre parti: il buon governo, il cattivo e lo stato delle cose in Firenze.

 

Trattato primo


Capitolo primo: dimostra l'importanza di avere un governo e vivere in società.

Capitolo secondo: afferma inizialmente che al governo del popolo è da preferire quello dei ottimati e a questo quello del re; Perché essendo la unione e pace del popolo el fine del governo, molto meglio si da e conserva questa unione e pace per uno che per più; e meglio per pochi che per la moltitudine;

Pure, è interessanti notare la logicità del Savonarola che, citando un passo del Vangelo in cui Gesù afferma che non si cuce un panno nuovo al vecchio né si mette vino nuovo in otri vecchi (cfr. Matteo 9, 16-17; Marco 2, 21-22; Luca 5, 36) così i governanti dovranno prima studiare il popolo e al popolo applicare il governo adatto (della moltitudine, degli ottimati o del re).

Quindi qui non c'è l'assolutizzazione della forma di governo ideale, ma c'è una prammaticità osservativa e scientifica che anticipa Machiavelli.


Capitolo terzo: Il governo per Firenze.

Afferma che se Firenze patisse il governo di uno, questi sarebbe uno principe e non un tiranno, el quale fussi prudente, iusto e buono. (Cfr. il capitolo del De Principatibus che affronta la questione del principe se debba essere amato o temuto e quali siano le sue virtù- c'è in quei passi una confutazione chiara di questo passo del Savonarola e il lettore fiorentino dell'epoca doveva avvertirlo potentemente). Tuttavia, continua il frate domenicano, considerata la natura di questo popolo (il fiorentino, ndR) non li conviene tale governo.

 

Seguiamo la sua logica. Per sopportare un principe (o il governo di uno) bisogna essere senza intelligenza e senza sangue (pusillanimi).

I popoli aquilonari (del Nord Europa) sono senza intelligenza e sono sotto a un re. I popoli orientali sono senza coraggio e sono sotto il re, ma Firenze e l'Italia tutta hanno sia intelligenza che coraggio e sono pronti a ordire continue insidie a chi non li tiranneggi.

Essendo dunque el popolo fiorentino ingegniosissimo tra tutti li popoli di Itlaia, e sagacissimo nelle sue imprese, ancora è animoso e audace, come si è visto per esperienzia molte volte; ...

 

Neppure il governo degli ottimati è da considerarsi valido, perché non c'è pace!

Conclusione della storia è che il governo civile è ottimo a Firenze, benché non sia ottimo in assoluto. Cioè, non tutti i popoli sanno tenere un governo civile (o meritarlo).



Trattato secondo

Capitolo primo: Il governo peggiore è quello di uno, specie se da cittadino semplice diventa tiranno.

 

Capitolo secondo: Tiranno è nome di uomo di mala vita, e pessimo tra tutti gli uomini, che per forza sopra tutti vuole regnare.

Savonarola, qui, è Savonarola. Il domenicano che critica, che analizza, che impietosamente dimostra di conoscere e denunciare i vizi degli uomini del suo tempo, di tutti i tempi.

E da questo seguita, ch'el tiranno abbia virtulamente tutti i peccati del mondo. Prima, perché ha la superbia, lussuria e avarizia, che sono la radice di tutti i mali. Secondo, perché avendo posto el suo fine nel stato che tiene,  non è cosa che non faccia per mantenerlo; e però non è male che lui non sia apparecchiato a fare, quando fusse al proposito del stato, come la esperienza dimostra, ché non perdona il tiranno a cosa alcuna per mantenersi in stato; e però ha in proposito, o in abito, tutti li peccati del mondo.

 

Naturalmente la differenza con Machiavelli è così evidente che è impossibile risolvere la dicotomia tra i due. E non si pensi che Savonarola sia il semplice moralista di turno o quello per cui il governante debba essere bello, buono e bravo tanto per..., come negli scritti precedenti. Qui, a parte l'importanza dell'ispirazione religiosa e dello studio serio dei Vangeli, c'è l'impostazione per cui un malato non può curare un malato. Se uno che governa è malato, malato sarà il suo Stato. La quale cosa potrebbe fare impallidire tutti i discorsi sul governo dello Stato che si sentiranno in Machiavelli.

Concetto così semplice da essere spesso dimenticato.

Vi è poi una rassegna dei peccati, di un'attualità (ahinoi) sconvolgente.


 

Capitolo terzio: S'el governo del tiranno è pessimo in ogni cittò e provincia, massimamente parmi questo essere vero nella città di Firenze, volendo noi parlare come Cristiani...

 

E perché questo ben vivere (la vita da veri Cristiani a cui deve tendere il governo delle città e i singoli) si nutrisce e augumenta dal vero culto divino, debbono sempre sforzarsi di mantenere e conservare e augumentare questo culto, non tanto di cerimonie, quanto di verità, e di buoni e santi e dotti ministri della Chiesa, e relligiosi, e dalla città, quanto è lecito e quanto possono, rimuovere li cattivi preti e relligiosi:

 



Trattato terzio

Capitolo primo: Nel governo civile più adatto a Firenze, non ci sarà nessuno che distribuirà compiti, funzioni e danari perché i cittadini amano sentirsi rispettati e fare soldi.



Capitolo secondo:


Capitolo terzio:

 

 

 


 

Umberto Saba e la poesia di una volta

 

Umberto Poli, noto con lo pseudonimo di Umberto Saba è nato a Trieste il 9 Marzo 1883 e morto a Gorizia il 25 Agosto 1957.

Le sue origini ebraiche e la sua "italianità" saranno coincidenti tratti distintivi di un carattere per altro schivo, riservato, che si levava a socialità e storicità nella scrittura ma che nella vita privata lo vedeva ramingo, nei suoi luoghi più amati, a pensare e scriverne.

 

Umberto Saba è stato un poeta del primo Novecento, di un'età di crisi sociale e morale, di sperimentazione, di avanguardismo, di dannunzianesimo.

Pure, egli ha sempre sentito di essere diverso dalla cultura dominante, dalla sensibilità che condurrà alla poesia patriottica vacua e retorica.

La sua musa, invece, nata nel periodo della guerra, quasi per gioco o per distrarsi dalla tanta violenza e come conforto alla paura, è stata un'introspezione tra il recondito dell'anima, un canto lirico sorto dalla lettura intensa dei classici, una voce della tradizione che risgorgava in lui carica di significati moderni ma con un cinguettio di ogni tempo.

 

La sua produzione poetica è stata radunata tutta sotto un unico inconfondibile titolo: Il Canzoniere. Evidente richiamo al Petrarca, è una lunga escursione nel suo intimo, nella sua biografia. Vi sono sonetti, canzoni, persino haiku, alla maniera di Ungaretti (metro della lirica giapponese che in quel periodo veniva importato in Italia).

 

Il Canzoniere è diviso in più sezioni:

Poesie dell'adolescenza e giovanili (1900- 1907),

Versi militari (1908), Casa e campagna (1909-1910),

Trieste e una donna (1910-1912), La serena disperazione (1913-1915),

Poesie scritte durante la guerra,

Tre poesie fuori luogo,

Cose leggere e vaganti (1920),

L'amorosa spina (1920)

Preludio e canzonette (1922-1923)

Autobiografia (1924)

I prigioni (1924)

Fanciulle (1925)

Cuor morituro (1925- 1930)

L'uomo (1928)

Preludio e fughe (1928- 1929)

Il piccolo Berto (1929 - 1931)

Parole (1933-1934)

Ultime cose (1935- 1943)

1944

Varie

Mediterranee (1945-1946)

Epigrafe (1947- 1948)

Uccelli (1948)

Quasi un racconto (1951)

Sei poesie della vecchiaia (1953 - 1954)

 

Il Canzoniere, dunque, abbraccia tutta la vita, il periodo di composizione di 54 anni.

I contenuti sono amorosi, "triestini", di riflessione prima sulla guerra mondiale e poi sul fascismo, quindi sul destino del mondo, quindi di vari argomenti vissuti sempre da Umberto, visti sempre come Umberto li vive.

Un diario dell'anima in rima, si richiama a Petrarca non tanto nel metro quanto nella chiara volontà di conoscersi e mostrare le prove della sua ricerca così da far conoscere gli altri attraverso sé stesso.

 

 

Poesie famose sono, almeno, A mia moglie, La capra, A mia figlia, Città vecchia, Caffé Tergeste, Favoletta alla mia bambina, Ulisse, Goal (de le Cinque poesie per il gioco del calcio), Teatro degli Artigianelli...

Nonostante abbia scritto poesie alquanto famose, linde, musicali, nel rispetto della tradizione italiana non è mai stato degnamente apprezzato. Forse per questa scelta controcorrente di seguire la tradizione.

Dice di sé in Vivevo allora a Firenze di avere incontrato D'Annunzio e Papini ma che né l'uno né l'altro lo hanno calcolato minimamente:

 

"Gabriele d'Annunzio alla Versiglia

vidi e conobbi; all'ospite fu assai

egli cortese, altro per me non fece.

 

A Giovanni Papini, alla famiglia

che fu poi della «Voce», io appena o mai

non piacqui. Ero fra lor di un'altra spece."

 


 

 

 

----

 

Saba è romantico con la moglie (Lina), dolce con la figlia (Linuccia)! (A mia figlia, Nuovi versi a Lina...), ma è anche eroico nei versi a Trieste e limpido narratore di solitudine quando descrive tratti della città o personaggi incontrati (siano commilitoni, triestini o semplicemente altri uomini).

 



 

La poesia romanesca

LA POESIA ROMANESCA


Il Romanesco è una lingua particolare. Un dialetto, come tutti i dialetti d'Italia, impastato di latino e di volgare (latino e lingue locali, più le sopraggiunte nuove lingue barbare). Però il romanesco è, si può dire, erede più diretto del latino classico in quanto latino della città e non della campagna o della provincia. E di che città! L'Urbe!

Il Romanesco ha, dunque, almeno idealmente una carica ulteriore di forza e di tradizione. Ma non si creda che il Romanesco sia una lingua seria o seriosa. Ah no! Il Romenesco è lingua di ironia finissima, di satira argutissima e comicissima, di immediatezza atterrente e che lascia l'altro senza parole di difesa.

Basti pensare che è con questa lingua che il popolo romano, se perdeva con le armi la legge, non perdeva mai la dignità di dire al potere ciò che era.

 



1600



GIOVANNI CAMILLO PERESIO

(Il Jacaccio, overo il Palio conquistato)


GIUSEPPE BERNERI

(Meo Patacca)



1800



Giuseppe Gioacchino Belli (Sonetti), la più mirabile esecuzione di scritti in lingua romanesca che hanno descritto Roma dal punto di vista di ogni personaggio, con la massima musa, con il sommo disprezzo per l'ingiustizia, il fanatismo (vaticano e popolare), l'ignoranza, la corruzione (nepotismo papale, cardinalizio e nobiliare) ...

 

 


Cesare Pascarella

Cesare Pascarella.

 

 

 


Giggi Zanazzo

Giggi Zanazzo.

 



Trilussa.

 



Mario Dell'Arco.



 

Inferno, Canto I

Inferno, Canto I

di Dante Alighieri


Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita. 

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura! 

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte. 

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai. 

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto, 

guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle. 

Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.


E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata, 

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva. 

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso. 

Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta; 

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto. 

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino 

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle 

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone. 

Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse. 

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame, 

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza. 

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista; 

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace. 

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco. 

Quando vidi costui nel gran diserto,
"Miserere di me", gridai a lui,
"qual che tu sii, od ombra od omo certo!". 

Rispuosemi: "Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui. 

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. 

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto. 

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?".


"Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?",
rispuos’io lui con vergognosa fronte. 

"O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume. 

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore. 

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi". 

"A te convien tenere altro vïaggio",
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
"se vuo’ campar d’esto loco selvaggio; 

ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide; 

e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria. 

Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia. 

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro. 

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute. 

Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla. 

Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno; 

ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida; 

e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti. 

A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire; 

ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna. 

In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!". 

E io a lui: "Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio, 

che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti". 

Allor si mosse, e io li tenni dietro.

 

Jacopone da Todi e la struggente laude in cui la donna è al centro della salvezza

 

STABAT MATER

 

Stabat Mater dolorósa

iuxta crucem lacrimósa,

dum pendébat Fílius.


Cuius ánimam geméntem,

contristátam et doléntem

pertransívit gládius.


O quam tristis et afflícta

fuit illa benedícta

Mater Unigéniti !


Quae moerébat et dolébat,

pia mater, cum vidébat

nati poenas íncliti.


Quis est homo, qui non fleret,

Christi Matrem si vidéret

in tanto supplício?


Quis non posset contristári,

piam Matrem contemplári

doléntem cum Filio ?


Pro peccátis suae gentis

vidit Jesum in torméntis

et flagéllis subditum.


Vidit suum dulcem natum

moriéntem desolátum,

dum emísit spíritum.


Eia, mater, fons amóris,

me sentíre vim dolóris

fac, ut tecum lúgeam.


Fac, ut árdeat cor meum

in amándo Christum Deum,

ut sibi compláceam.


Sancta Mater, istud agas,

crucifíxi fige plagas

cordi meo válide.


Tui Nati vulneráti,

tam dignáti pro me pati,

poenas mecum dívide.


Fac me vere tecum flere,

Crucifíxo condolére

donec ego víxero.


Iuxta crucem tecum stare,

te libenter sociáre

in planctu desídero.


Virgo vírginum praeclára,

mihi iam non sis amára,

fac me tecum plángere.


Fac, ut portem Christi mortem,

passiónis fac me sortem

et plagas recólere.


Fac me plagis vulnerári,

cruce hac inebriári

et cruóre Fílii.


Flammis urar ne succénsus,

per te, Virgo, sim defénsus

in die iudícii.


Fac me cruce custodíri

morte Christi praemuníri,

confovéri grátia.


Quando corpus moriétur,

fac, ut ánimae donétur

paradísi glória. Amen.

 

 

 
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