Questo brevissimo saggio lo sottotitolo della quasi poesia per ragioni che non potranno sfuggire.
Marziale, dall'Iberia, va a Roma in cerca di fortuna. Si inventa epigrammista in occasione di alcuni giochi gladiatori indetti dall'imperatore Tito e ha fortuna anche con il successore, Domiziano.
Gli vengono conferiti onori. Viene assunto alla carica di cavaliere. I suoi distici divengono noti, tra il popolo di Roma.
Marziale, dunque, si fa l'idea, espressa in più punti, di avere scritto per l'immortalità.
Si sa della lettera del suo amico Plinio il Giovane, che lo ricorda con affetto ancorché convinto che non avesse scritto versi immortali.
Tutto si gioca sulla dignità dello scritto.
Ogni scritto in verso è poesia? (Oggi, ogni scritto, in qualsiasi forma, è poesia?).
Marziale ha scritto più versi dell'Eneide di Virgilio. La differenza? La saltuarietà e l'inorganicità del primo, spesse volte riproducente un linguaggio triviale e scurrile, fatto di chiacchiere, offese, lodi, encomi, non ha lo stesso impegno di un'opera definita, con un capo e una coda.
Sebbene si possa riferire al puzzle di Marziale (come quello belliano e d'altri) un filo conduttore che alla fine ridà la Roma dell'epoca, la Roma della battuta, dell'offesa, del sesso, dei tradimenti, del potere, dell'ambiguità, sicuramente molti dei versi che in quella Roma, in quel tempo, avevano un senso profondo, oggi si incuriosiscono ma non ci entusiasmano.
Questo dice la differenza tra Marziale e la quasi poesia, quella dell'epigramma, dei mottetti, (oggi della poesia prosastica) e la poesia considerata alta, quella tragica, quella epica.
Dunque Marziale è destinato ad essere un immortale secondo?
Probabilmente sì, ma non per la dignità dell'epigramma.
Millenni dopo, un epigrammista del cinema italiano, Alberto Sordi, dirà: "Quando si ride bisogna esse seri!". E chi scrive è convinto che sia difficile far ridere.
Tuttavia, l'essersi dedicato in maniera monocorde ad una lingua e a delle vicende marginali, sono archeologia antropologica o poesia?
Sono, forse, quel monumento alla plebe romana che era l'obiettivo di Giuseppe Gioacchino Belli.
In definitiva, Marziale è stato poeta per il suo tempo e marginalmente dei tempi.
Tuttavia, può ben affermare con sicurezza di essere durato meno di alcuni ma più di altri.
Più di Cinna.
Perciò Marziale è ancora oggi simpatico quando gli dice: Non scribit, cuius carmina nemo legit.
E quel verso ruggisce lampi di poesia ancora oggi.
Canto XXI, ove si tratta del sopradetto quinto girone, dove si punisce e purga la predetta colpa de l’avarizia e la colpa de la prodigalitade; dove truova Stazio poeta tolosano.
La sete natural che mai non sazia se non con l’acqua onde la femminetta samaritana domandò la grazia, 3
mi travagliava, e pungeami la fretta per la ’mpacciata via dietro al mio duca, e condoleami a la giusta vendetta. 6
Ed ecco, sì come ne scrive Luca che Cristo apparve a’ due ch’erano in via, già surto fuor de la sepulcral buca, 9
ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa, dal piè guardando la turba che giace; né ci addemmo di lei, sì parlò pria, 12
dicendo: "O frati miei, Dio vi dea pace". Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio rendéli ’l cenno ch’a ciò si conface. 15
Poi cominciò: "Nel beato concilio ti ponga in pace la verace corte che me rilega ne l’etterno essilio". 18
"Come!", diss’elli, e parte andavam forte: "se voi siete ombre che Dio sù non degni, chi v’ ha per la sua scala tanto scorte?". 21
E ’l dottor mio: "Se tu riguardi a’ segni che questi porta e che l’angel profila, ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni. 24
Ma perché lei che dì e notte fila non li avea tratta ancora la conocchia che Cloto impone a ciascuno e compila, 27
l’anima sua, ch’è tua e mia serocchia, venendo sù, non potea venir sola, però ch’al nostro modo non adocchia. 30
Ond’io fui tratto fuor de l’ampia gola d’inferno per mostrarli, e mosterrolli oltre, quanto ’l potrà menar mia scola. 33
Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli diè dianzi ’l monte, e perché tutto ad una parve gridare infino a’ suoi piè molli". 36
Sì mi diè, dimandando, per la cruna del mio disio, che pur con la speranza si fece la mia sete men digiuna. 39
Quei cominciò: "Cosa non è che sanza ordine senta la religïone de la montagna, o che sia fuor d’usanza. 42
Libero è qui da ogne alterazione: di quel che ’l ciel da sé in sé riceve esser ci puote, e non d’altro, cagione. 45
Per che non pioggia, non grando, non neve, non rugiada, non brina più sù cade che la scaletta di tre gradi breve; 48
nuvole spesse non paion né rade, né coruscar, né figlia di Taumante, che di là cangia sovente contrade; 51
secco vapor non surge più avante ch’al sommo d’i tre gradi ch’io parlai, dov’ ha ’l vicario di Pietro le piante. 54
Trema forse più giù poco o assai; ma per vento che ’n terra si nasconda, non so come, qua sù non tremò mai. 57
Tremaci quando alcuna anima monda sentesi, sì che surga o che si mova per salir sù; e tal grido seconda. 60
De la mondizia sol voler fa prova, che, tutto libero a mutar convento, l’alma sorprende, e di voler le giova. 63
Prima vuol ben, ma non lascia il talento che divina giustizia, contra voglia, come fu al peccar, pone al tormento. 66
E io, che son giaciuto a questa doglia cinquecent’anni e più, pur mo sentii libera volontà di miglior soglia: 69
però sentisti il tremoto e li pii spiriti per lo monte render lode a quel Segnor, che tosto sù li ’nvii". 72
Così ne disse; e però ch’el si gode tanto del ber quant’è grande la sete, non saprei dir quant’el mi fece prode. 75
E ’l savio duca: "Omai veggio la rete che qui vi ’mpiglia e come si scalappia, perché ci trema e di che congaudete. 78
Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia, e perché tanti secoli giaciuto qui se’, ne le parole tue mi cappia". 81
"Nel tempo che ’l buon Tito, con l’aiuto del sommo rege, vendicò le fóra ond’uscì ’l sangue per Giuda venduto, 84
col nome che più dura e più onora era io di là", rispuose quello spirto, "famoso assai, ma non con fede ancora. 87
Tanto fu dolce mio vocale spirto, che, tolosano, a sé mi trasse Roma, dove mertai le tempie ornar di mirto. 90
Stazio la gente ancor di là mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; ma caddi in via con la seconda soma. 93
Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati più di mille; 96
de l'Eneïda dico, la qual mamma fummi, e fummi nutrice, poetando: sanz'essa non fermai peso di dramma. 99
E per esser vivuto di là quando visse Virgilio, assentirei un sole più che non deggio al mio uscir di bando". 102
Volser Virgilio a me queste parole con viso che, tacendo, disse ’Taci’; ma non può tutto la virtù che vuole; 105
ché riso e pianto son tanto seguaci a la passion di che ciascun si spicca, che men seguon voler ne’ più veraci. 108
Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca; per che l’ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove ’l sembiante più si ficca; 111
e "Se tanto labore in bene assommi", disse, "perché la tua faccia testeso un lampeggiar di riso dimostrommi?". 114
Or son io d’una parte e d’altra preso: l’una mi fa tacer, l’altra scongiura ch’io dica; ond’io sospiro, e sono inteso 117
dal mio maestro, e "Non aver paura", mi dice, "di parlar; ma parla e digli quel ch’e’ dimanda con cotanta cura". 120
Ond’io: "Forse che tu ti maravigli, antico spirto, del rider ch’io fei; ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli. 123
Questi che guida in alto li occhi miei, è quel Virgilio dal qual tu togliesti forte a cantar de li uomini e d’i dèi. 126
Se cagion altra al mio rider credesti, lasciala per non vera, ed esser credi quelle parole che di lui dicesti". 129
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi al mio dottor, ma el li disse: "Frate, non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi". 132
Ed ei surgendo: "Or puoi la quantitate comprender de l’amor ch’a te mi scalda, quand’io dismento nostra vanitate, 135
trattando l’ombre come cosa salda".
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Ciò che fa Dante Dante è tutto in questo canto.
La versatilità del verso, che dopo un canto piuttosto rampognante e drammatico (la montagna del Purgatorio ha appena tremato), si piega ad un altro più mistico ed elegiaco, quello dell'incontro tra la coppia di viaggiatori Virgilio e Dante e un'ombra (paragonata addirittura a quella di Cristo risorto ai due discepoli che andavano ad Emmaus) e persino comico (il sorriso di Dante).
Quest'ombra è il napoletano Publio Papinio Stazio, importante poeta epico del I secolo d. C., noto per la Tebaide e l'incompiuta Achilleide.
Il tutto avviene secondo la cronologia della Commedia;
1. Apparizione dell'ombra;
2. Saluto tra l'ombra e Virgilio;
3. L'ombra domanda, a seguito delle parole del mantovano, perché, se stanno nel mondo inferiore, sono saliti sin lì.
4. Virgilio spiega e domanda perché le scosse di terremoto;
5. L'ombra spiega.
6. Virgilio domanda chi sia;
7. L'ombra si presenta per Stazio e omaggia il suo grande modello, Virgilio.
8. Dante ride, anche se Virgilio lo fissa per proibirgli di parlare.
9. Stazio chiede il motivo del sorriso di Dante.
10. Dante riguarda a Virgilio che concede il permesso per cui dica.
11. Dante presenta Virgilio a Stazio.
12. Stazio si inginocchia, allora, per baciare i piedi a Virgilio.
13. Virgilio afferma: "Frate, non far, ché tu se' ombra ed ombra vedi".
14. Risposta finale di Stazio:
"Or puoi la quantitade
comprender dell'amor ch'a te mi scalda,
quand'io dismento nostra vanitate
trattando l'ombre come cosa salda".
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Dopo anni di finto patriottismo, di calciopoli, di tangentopoli, di violenza prima, durante e dopo le partite; dopo anni di capi ultrà che dettano legge, di compravendite di calciatori che valgono quanto gli uomini (non)liberi di una piccola provincia; dopo le foto hosé, gli scandali, le prime pagine; dopo la vittoria e la pessima sconfitta; dopo avere visto, nel 2006, il mio popolo scendere in strada, nelle piazze, riversarsi numeroso, osannante, unito, compatto, per festeggiare la Coppa del Mondo mentre ogni giorno muore, la sua dignità è calpestata, viene violentato verbalmente e fisicamente nei suoi diritti e non muove un dito;
dopo avere visto che il calcio è mercato, è soldi, è uno che per tirare calci ad una palla prende 5 milioni di euro all'anno;
dopo tutto questo, io grido, per questo e i prossimi Mondiali:
ABBASSO ITALIA!

Se fosse una commedia, saremmo saliti sul tetto del Comune o sul cavalcavia di Porta Manfredonia o all'ultimo piano di un palazzo del centro e avremmo potuto affermare, guardando Foggia, "certo che le devastazioni che ha subito questa città".
Purtroppo non è una commedia, non è Gallo Cedrone, non è Roma, ma una tragedia, l'ennesima, di vita vera, a Foggia.
Si potrebbero scomodare, allora, illustri e tristi paragoni con Viale Giotto e simili, ma a che pro? Le vicende sono differenti ma la stessa costernazione, lo stesso abbandono percepito all'epoca, la stessa miserevole colpa di noi uomini fallaci che produce una fatalità ancora più inevitabile del destino, perché da noi stessi prodotta, è in questa foto, è in quello che è successo il 3 Giugno 2014.
Anche stavolta nel pieno della notte. Anche stavolta un nuvolone di fumo. Anche stavolta innocenti.
Che poi, in questa ennesima strage del presappochismo, dell'inettitudine e del modus operandi da selvaggio West, Foggia ancora una volta si distingue, pressoché imbattibile.

E così siamo ancora qui a commentare, a livello nazionale, il nuovo infrenabile disastro di una città che ha mille problemi (e di questo non ha alcuna colpa) ma che non sembra fare nulla per risolverli (e questa è la sua colpa!).
Migliaia di foggiani espatriano in Italia e all'estero, migliaia vivono in modo corretto la città e la cittadinanza, un gran numero cercano di vivere come possono, arraffando qua e là e il resto sono coloro che la dirigono a livello legale e/o illegale.
Proprio oggi si vota per dare alla città un nuovo primo cittadino. Ed io oggi scrivo.
Non per lui piuttosto che per l'altro ma per ricordare ai due che, chiunque vinca, di politici corrotti e disonesti ne sono tanti, di onesti e probi, che il popolo ama e che ricorda in modo imperturo, davvero pochi.
Che il prossimo sindaco, più che dai soldi facili o dalle inevitabili pressioni, sia informa dalla voglia reale, non filosofica, non salottiera, non da tribuna elettorale, ma vera, coi fatti, sia informato di voglia di cambiare la mentalità, il ritmo e la logica della città e soffiare sul latente ardore dauno che da tanto, troppo tempo, giace dimenticato nei petti di ognuno.

Sono soprattutto le tragedie ad insegnare la profondità d'animo che gli uomini hanno non sapendo di avere.
L'augurio per la mia cara città è che torni ad essere fiera di sé, si riscopra parte fondamentale d'Italia e magari riesca a concepire grandi sogni come meriterebbe.
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