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Blog letterario

Foscolo e i Sonetti del 1803

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
Di gente in gente, me vedrai seduto
Su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
Il fior de’ tuoi gentili anni caduto:

La madre or sol, suo dì tardo traendo,
Parla di me col tuo cenere muto:
Ma io deluse a voi le palme tendo
E sol da lunge i miei tetti saluto.

Sento gli avversi Numi, e le secrete
Cure che al viver tuo furon tempesta;
E prego anch’io nel tuo porto quiete:

Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l’ossa mie rendete
Allora al petto della madre mesta.


Tra i dodici Sonetti pubblicati in prima edizione nel 1803 il noto "In morte del fratello Giovanni" è il decimo, collocato simbolicamente tra A Zacinto e Alla Musa.


L' 8 dicembre 1801 il fratello minore del poeta, Gian Dioniso ma chiamato Giovanni, muore a Venezia. L'ipotesi più accreditata è quella di una scelta volontaria, per i problemi recati al ventenne dalla perdita al gioco di una grossa somma di denaro che egli avrebbe sottratto (o fatto sottrarre) dalla cassa dell'esercito. Era, infatti, tenente.


Il sonetto parte con una promessa, come una formula liturgica, come a volere donare Ugo una sacralità a quello che sta per dire:

Un dì...


Solennità di re, solennità di interprete-sacerdote, solennità di vate.


s'io non andrò sempre fuggendo

è l'ipotesi, molto plausibile, se spezza la promessa che il poeta stava facendo, interponendosi tra il dì e il vedrai seduto detto all'interlocutore.


Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo

di gente in gente, me vedrai seduto

sulla tua pietra, o fratel mio, gemendo

il fior de' tuoi gentili anni caduto.


Il secondo verso è particolare, tra il "di gente in gente" e il "vedrai seduto" c'è, in posizione centrale ed enfatica il "me". Ugo si sente al centro, tirato dal destino del vagabondo costretto a girare tra le genti d'Italia e d'Europa senza pace intima né sicurezza politica, e gli affetti.

Così come al centro tra la pietra e il suo gemere pone il vocativo potente e mite, che vuole dire tutta la meravigliosa bontà che egli gli rivolge.


La metafora de "il fior de' tuoi gentili anni caduto" è assai frequente, tanto da essere uno dei topos più famosi di tutta la letteratura (non solo italiana).



La seconda quartina è un capolavoro di struggente introspezione, quasi un anticipo di quella scienza che vorrà analizzare la complessità dell'animo umano.

La madre è raffigurata con malinconica disperazione (aspetta il suo giorno estremo, anche qui torna il dì, quasi a sottolineare che quel dì iniziale che voleva essere profetico e solenne si spegnerà per lui come quello della madre nella disperazione degli eventi che incombono e del fallimento storico e personale che si impone anche per Ugo), in preda ad una lucida follia.


La madre or sol, suo dì tardo traendo,
Parla di me col tuo cenere muto:
Ma io deluse a voi le palme tendo
E sol da lunge i miei tetti saluto.


Anch'egli è reso folle dalla notizia, anch'egli vanamente tende le palme a loro due.

Vanamente per la distanza, ma vanamente anche per l'impossibilità dell'azione stessa.

"or sol ... parla" "e sol ... saluto", il sonetto è tutto ricamato di richiami interni che scandiscono la complementarietà del filo sottile che lega il destino dei tre protagonisti, perché proprio di tre protagonisti bisogna parlare.

Si potrebbe, dunque, definire il presente come un sonetto tridimensionale o triverbalizzato.

"vedrai" (verso secondo, seconda persona singolare) "parla" (verso quarto, terza persona singolare) e la maggior parte dei verbi (in prima persona singolare).




Sento gli avversi Numi, e le secrete
Cure che al viver tuo furon tempesta;
E prego anch’io nel tuo porto quiete:


Nelle due terzine torna il tono più cerimoniale dell'apertura.

Questa inattesa dichiarazione di fede all'incontrario (i Numi sono avversi, i Numi sono molti, i Numi sono pagani) scandisce la precipitazione dell'azione in una sorta di assedio al poeta. I Numi contrari, i pensieri più intimi che furono tempesta, dunque motivo di disorientamente e violenza sentimentale nell'altro, sono momenti conosciuti anche dalla vita del Nostro.

Per questo si diceva che questo sonetto è anticipatore della stagione della scienza psichiatrica, in qualche modo.

C'è qui quello che alla fine di quello stesso secolo il filosofo tedesco Vischer chiamerà empatia, la capacità di essere dentro il sentimento dell'altro, di comprendere il sentimento altrui in un gioco di sofferente immedesimazione.


E ancora un riferimento amaro alla fede, "prego anch'io", come se il porto quiete scelto fosse una consolazione alla tempesta. Il rovesciamento dei termini coinvolge non solo il verbo pregare che starebbe per medito profondamente ma anche la tempesta che è la vita e il porto che è la morte.

Rovesciamento semantico per dire il rovesciamento prodotto dal gesto.


Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l’ossa mie rendete
Allora al petto della madre mesta.


Il ricordo di altri poeti cari al Foscolo, Catullo, Petrarca, si fa prossimo nell'ultima parte, quella conclusiva.

Il pronome questo, così immediato e così sibillino, apre alla dichiarazione non solo di una passata grande speranza nella vita propria e altrui, ma anche nel completamento della profezia annunciata all'inizio del sonetto.

Il Foscolo-vate giunge alla predizione del proprio destino, un destino di esilio, di allontanamento, di sconfitta.

Ancora una invocazione, ancora un ricordo della madre, la madre disperata e folle di prima ma anche, qui, l'allegoria della Patria. Di una patria che l'avrebbe condannato e che egli già perdona.

"Un dì..." "allora", un giorno che al poeta non sembrava poi tanto distante e che avverrà un giorno di inizio Settembre di ventiquattro anni dopo la pubblicazione dei Sonetti, quando, all'età di quarantanove anni, Foscolo, dopo la vita travagliata che ha vissuto, trova il porto desiderato.


Questa splendida poesia fa di Ugo Foscolo un poeta pieno di gentile e violento ardore per la vita e per i versi.

Un cantore del proprio esistere come paradigma dell'esistere nel mondo.

Alla tempesta dei tempi, alla tempesta della vita altrui, la propria vita tempestosa è un viaggio senza il conforto di affetti e Patria, il motivo del patriota lontano da casa e dell'amante infelice lontana dall'amata.

 

Di questa distanza è permeata la sua poetica. Questa distanza è la vicinanza che si prova leggendolo.

 

Melchisedek e il Saladino: un inno di pace e di amicizia in Boccaccio

 

Se possiamo essere certi che i guerriglieri dell'Isis non abbiamo mai letto di Melchisedek e del Saladino, possiamo bene sospettarlo di tanti occidentali di oggi e di ieri i quali parlano di Cristianesimo senza aprire il Vangelo o ripetendo fino al logoramento stereotipi lontanissimi dalla realtà e ciò fanno con la Bibbia e il Corano.

Se non si volesse farsi un'idea della religione tramite i testi sacri, sarebbe appunto l'incontro tra un usuraio ebreo e un grande condottiero musulmano la strada giusta per capire, ancora oggi, il rapporto tra le religioni.

 

 

L'incontro letterario tra i due è descritto nella splendida novella scritta da Giovanni Boccaccio che testimonia come lo scrittore toscano abbia continuato la grande strada della tolleranza tra popoli e religioni attraverso la fede e la cultura.

Giovanni Boccaccio, scrivendo il Decameron, vuole far capire a tutti - anche a quei borghesi a cui dedica, di fatto, l'opera - che dopo la terribile peste del 1348 il mondo è cambiato.

E così, Boccaccio, che è stato anche il più grande novelliere della letteratura italiana e il primo dantista (studioso di Dante), ci descrive questa storia.

Filomena (la narratrice di turno tra i dieci giovani che si erano rifugiati fuori Firenze per scampare alla peste), comincia a raccontare:

C'era un giorno il famoso Saladino (vincitore dei Crociati) che aveva bisogno di denaro.

Gli viene in mente Melchisedek, che è un usuraio ebreo ad Alessandria.

Potrebbe prendergli i soldi con la violenza ma non vuole (sia perché capo giusto sia per non scatenare proteste fra gli Ebrei).

Allora decide di convocarlo e porlo davanti ad un tranello.

Gli chiede: tu, Melchisedek che sei così saggio, dimmi, quale delle tre grandi religioni è quella vera?

Naturalmente, Melchisedek, che è davvero saggio, risponde all'astuzia del sovrano.

Come risponde? Qui il capolavoro. Aggirando l'ostacolo.

Se, infatti, avesse risposto la mussulmana, il Saladino gli avrebbe preso i soldi tacciandolo per apostata (colui che rinuncia alla propria fede); se avesse risposto l'ebraica, il Saladino gli avrebbe preso i soldi accusandolo di miscredenza; se avesse risposto la cristiana peggio ancora.

L'usuraio ebreo, allora, racconta una storia: un re ha un anello prezioso che decide di regalare al migliore suoi figli. Questo anello passa di generazione in generazione fino a che non arriva ad un re che ha tre bellissimi e bravissimi figli. Tanto bravi che non sa decidere a chi lasciarlo. Allora decide di far fare due copie identiche ad un orefice. Erano talmente identiche che nemmeno il re sapeva quale fosse l'anello originale.

Così prima di morire, vista l'insistenza dei figli, ne diede uno a testa.

Quando egli morì tutti rivendicarono il trono, ognuno mostrando il proprio anello.

E così non si riuscì mai a stabilire quale anello fosse il vero.

Così, dice alla fine della storia Melchisedek, è per le tre religioni.

Il Saladino, sorpreso da tanta saggezza, gli svelò le sue vere intenzioni verso di lui se non fosse stato ammirato dalla sua risposta e dalla sua storia.

Così Melchisedek GENEROSAMENTE (dice Boccaccio) prestò i soldi al Saladino. Il Saladino glieli restituitì e gli fece anche dei REGALI.

I due divennero amici.

Questa novella è, dunque, un inno alla pace e all'amicizia.

I livelli di narrazione, poi, sono un'altra componente interessante in Boccaccio.

NARRATORE DI 1 GRADO - La voce in terza persona che narra tutto il Decameron (voce sotto cui si cela l'AUTORE, Boccaccio stesso).

NARRATORE DI 2 GRADO -  Filomena, la giovane a cui toccava raccontare la novella.

NARRATORE DI 3 GRADO - Melchisedek che dentro la storia di Filomena racconta al Saladino la storia degli anelli.

Quindi in questa pagina di letteratura si racchiude un capolavoro narratologico e un capolavoro di umanità.

A cui noi tutti dobbiamo ancora, sempre essere grati a Giovanni Boccaccio.


 

Giacomo e Leopardi. Breve risposta all'articolo di un critico letterario sulla scolarizzazione dei poeti

Giacomo e Leopardi.

Breve risposta ad un articolo di Silvio Ramat

di

Vito Lorenzo Dioguardi

Due chiare itale genti entrano in guerra

per te già estinto, e ti vuol suo ciascuna:

e vivo, ignudo errar di terra in terra

ti vider tutte, e non ti volle alcuna.

(Epigrammi – A Torquato Tasso – Aurelio de’ Giorgi Bertola)[1]

 

 

Caro Silvio,

che bello il tuo ultimo articolo di Novembre sulla rivista Poesia, nella tua rubrica “Dagli scrigni dell’Ottocento”. Hai finalmente chiamato per nome Giacomo. Soltanto una volta ti è scappato di scrivere Leopardi e poi ti sei rivolto a lui come ad un amico.

E questo a differenza dei tuoi libri precedenti, come quel “Psicologia della forma leopardiana” del 1969, quando eri ancora troppo timido per riferirti al poeta recanatese, al sublime modello della poesia contemporanea, come se ci si rivolgesse ad un amico.

Ora io ti scrivo queste mie brevi considerazioni non solo per apprezzare questo tuo coraggio di rivolgerti a Giacomo chiamandolo per nome, che è cosa da anticritica sebbene tu sia anche un critico, ma anche per invitarti a meditare su un fatto: a me pare tu abbia cercato di parlare di Giacomo avendo però sempre in mente di parlare di Leopardi.

 

 

Mi spiego.

Giacomo era un ragazzo sognatore, curioso, allegro e scherzoso, un ragazzo che aveva desiderio di vedere il mondo, di instaurare rapporti di amicizia veri e duraturi e di innamorarsi di una donna.

Leopardi è quel Giacomo sognatore su cui il padre letterato e la madre economa hanno riversato un’insaziabile sete di successo che, favorita evidentemente dalla precocità e dal talento di lui (che gli altri figli non avevano, non al suo grado), ha creato un’ombra lunga e pesante da portare sulle spalle ancora bianche di un ragazzo nobile di provincia.

Leopardi, ancora, è quel Giacomo che gli amici di Toscana offendevano nelle loro missive.

Leopardi, quindi, è quel Giacomo de Il primo amore o del Consalvo che, oramai conosciuto dal pubblico, scrive con orgoglio ferito e dignità spezzata l’Amore e morte e l’Aspasia.

Poiché, infatti, nei Canti la critica ha sempre parlato di Leopardi e poco acutamente di Giacomo, se non in quelle gigantesche monografie così cariche di teorie e interpretazioni sulla vita e l’opera del Nostro da risultare prive di ogni logica e fondamento, devo ammonirti che, a mio giudizio, tu cadi nello stesso errore.

Hai il coraggio di invocare Giacomo ma non sei riuscito a liberarti dell’idea pubblica di Leopardi.

Mi spiego ancora meglio.

Nell’articolo menzionato prima dici che i suoi puerilia sono per lo più ignoti e lasci intendere che rappresentano un tesoro di crescita culturale e spirituale talmente importante per comprendere tutta la sua opera che ogni amante del recanatese dovrebbe tenerne conto, salvo, poi, liquidare alcune questioni in maniera non totalmente corretta.

Ad esempio, leggendo il brano tratto da La morte di Abele e poi la tua lettura, ho trovato due passaggi incondivisibili e il tutto mi ha dato un’impressione comune e un po’ scontata che spero mi correggerai.

  1. Il primo passaggio è l’inevitabile e stancante ripetizione del rapporto Recanati-Giacomo.

coerentemente a quell’educazione tipicamente provinciale e periferica su cui la critica ha molto insistito e che, mentre costituisce in partenza un handicap innegabile – se si raffronta l’inerzia del “natio borgo selvaggio”, all’interno dello Stato Pontificio, con la vitalità di altri centri della Penisola-, comporta però, in Giacomo, una ginnastica tenace sulle forme espressive”.

Educazione provinciale e periferica? Handicap? Vitalità di altri centri della Penisola?

Tu citi la critica, critico tu stesso.

Se c’è qualcosa che rovina in qualche modo la poesia è una parte della critica.

Non perché anche a me non diverta scrivere mie impressioni ora su questo idillio ora su quella canzone, ma mantengo sempre un sentimento di onestà e di rispetto per Giacomo che non ho sempre trovato nei tanti critici che lo hanno a noi “tradotto”.

Giacomo Leopardi era un conte di provincia, come tu dici, non diversamente da tanti altri.

Forse proprio quell’educazione esageratamente cattolica della madre e quella pretesa che fosse un grande letterato del padre hanno cagionato quel rifiuto per la religione e quel grado di insoddisfazione per il nostro giovane amico.

Eppure non ci vedo nulla di meno provinciale che i tanti letteratucoli e poetastri che vivevano a Roma in quel periodo, come se dall’epoca di Orazio non se ne fossero mai andati.

Chi c’è di grande poeta a Roma in quel periodo? Nessuno, l’astro di Beppe er Tosto (Giuseppe Gioacchino Belli) non brilla ancora.

Chi c’è a Milano? Monti al crepuscolo. Il Manzoni civile che oggi leggono in pochi.

Chi fuori? Ugo, il Foscolo tenebroso dell’esilio.

Dov’è, Silvio, la vitalità di cui parli? Parli forse della pletora di letterati di minore profilo che oggi tu rispolveri nella tua rubrica per amanti della poesia come me. Non credo che questa vitalità facesse per Giacomo Leopardi, che infatti morrà assistito – o accompagnato – da un unico amico e dalla sorella di lui (anche se non mancheranno anche a Napoli personaggi che gli si avvicineranno).

Dici che questo nascere o vivere a Recanati è un handicap? Io non credo punto. Dei trentasei componimenti dei Canti (dell’ultima edizione, 1835 Napoli) ben venti sono stati scritti a Recanati.

Se consideri anche i cinque frammenti (per un totale di quarantadue componimenti) almeno tre (quindi in tutto ventitré) sono sempre recanatesi.

Dunque, non solo essere a Recanati non è stato un handicap ma gli ha dato il vantaggio di sognare un mondo che egli conoscerà tardi e che per tutto quel tempo sognerà.

Grazie a Recanati abbiamo le canzoni patriottiche, l’Infinito, l’Alla sua donna e il Canto notturno, per fare solo pochi esempi, e tanti passi dello Zibaldone.

E quando scrive a Paolina che fuori Recanati non sogna (e ciò gli par strano) e quando nell’epistolario familiare annuncia di essere tornato, tanti anni dopo, a scrivere versi con quel suo cuore all’antica, egli rievoca Recanati, ovvero quel periodo di sofferenza dorata che lo ha reso sitibondo di gloria e conoscenza e che, nel mondo arido dell’oggi che lo ha fagocitato, non gli basterà più.

Quello che vedrà fuori Recanati non è la grande Roma dei libri, non è la Firenze michelangiolesca, non è il mondo petrarchesco o tassiano che si era immaginato.

Alla fine tra un contadino ignorante di Recanati e i nuovi credenti napoletani egli riscontrerà la stessa ignoranza, la stessa mancanza di verità.

Logicamente se Giacomo fosse nato a Roma o Milano non sappiamo cosa sarebbe stato.

La sua intelligenza sarebbe rimasta ma la sua immaginazione?

Se poi tu hai avuto sorte di vedere Recanati puoi ben comprendere cosa dico.

Io l’ho vista più e più volte. E se la prima volta mi batteva il cuore, la seconda palpitavo, la terza camminavo piano per non disturbare qualche traccia del suo spirito rimasta impigliata lungo le vie, poi è stato un susseguirsi ripetitivo far su e giù da casa Leopardi alla piazza.

Quella noia gli ha prodotto sete di gloria, di mondo, di conoscenza. Anche voglia di scappare.

Giacomo non sarebbe stato Leopardi senza Recanati. Recanati era un abito troppo stretto per la taglia della sua anima. (E non lo saranno, ripeto, anche Bologna, Milano, Roma, Firenze, Pisa e Napoli?).

  1. L’altro passaggio che mi ha lasciato perplesso è il seguente:

Qui interviene il deus ex machina, che certo il ragazzo aveva incontrato spesso nelle sue letture: un deus che è letteralmente divino, celeste, sdegnato al punto di suscitare una di quelle tempeste che volentieri, topiche, drammatizzano questi puerilia.

Che certo il ragazzo aveva incontrato spesso nelle sue letture. La famiglia Leopardi era cattolica, la madre Adelaide cattolicissima (come la Spagna, stesso zelo che diventa eccesso e fanatismo, ma stiamo parlando pur sempre dell’Ottocento). Giacomo nasce nel clima e nell’ambiente di una famiglia nobile cattolica italiana. Più, dello Stato Pontificio.

Ora, so cosa dicono molti critici di questo, non mi aspettavo che lo dicessi anche tu.

Giacomo è stato affascinato e attratto dalla figura di Gesù Cristo. Da ragazzo, per imposizione ma anche per predisposizione di carattere, era molto credente.

Se si può dare credito a Monaldo, egli dice che suo figlio giovanissimo, se ascoltava più messe era contento.

Con ciò a me pare che le tue parole esprimano come una sorta di compassionevole benevolenza nei confronti di un ragazzotto di provincia non ancora grande poeta celebrato.

Come se quegli anni di fede non contassero, fossero solo un apprendistato, non avessero importanza.

Eppure tu dicevi, sempre in quell’articolo, all’inizio, che la critica italiana s’era poco concentrata sui puerilia dell’autore.

Così, in quello che hai rimproverato saggiamente agli altri sei caduto anche tu.

Giacomo Leopardi credeva in Dio. Ci ha creduto sino, ci dicono i manuali scolastici, alla crisi del 1818-1819.

Dopo di che sarebbe un crescendo di malinconia, di noia, di dichiarazioni di infelicità, prima personale e poi addirittura universale.

Se Giacomo da ragazzo credeva e poi, divenuto pian piano Leopardi non credeva più, a quale parte di sé dobbiamo credere noi?

Chi era più autentico?

Quel Giacomo lirico degli esordi che molte volte anche il solitario Leopardi della matura e del volontario esilio per il mondo invocava oppure il Leopardi famoso e ricercato che prende le distanze da quel Giacomo così pieno di speranza giovanile e acerba?

  1. Infine l’impressione. Se Giacomo, nella sua infanzia e nella sua primissima giovinezza credeva, se la sua sensibilità umana coincideva nella più larga sfera della sua ascesa (e ascesi) religiosa, perché allora questi puerilia sono stati accantonati sino ad ora?

Non trovi, Silvio che un uomo come Giacomo Leopardi, nato libero, vissuto libero, sia stato sempre troppo incarcerato da talune definizioni professorali e ricamate discussioni accademiche o, peggio, da strattonamenti della politica culturale italiana, ora di qua, ora di là?

Quando si parla di Leopardi in una qualunque scuola pubblica italiana subito si tirano fuori termini come noia, pessimismo, solitudine, malinconia, eccetera.

Tu che sei un critico, Silvio, non pensi che la critica letteraria italiana (e qui si fa un discorso massivo salvando i singoli o la loro buona intenzione) abbia usato il poeta non più che i suoi contemporanei?

Se le Operette possono essere un evidente omaggio ad una nuova verità che vede l’uomo succube della Natura, i Canti, perché epopea in versi di una vita intera e non alta filosofia di pochi anni, perché momento alto dello spirito del poeta, hanno accenti diversissimi da una composizione ad un’altra e testimoniano, per lo meno, una complessità nello stile e nella scelta tematica, nell’idea di sé e del mondo che è forse la più grande verità su Giacomo Leopardi.

Nei Canti c’è sia Giacomo che Leopardi, ripeto.

Così, i buoni professori italiani ora calcano nei titoli l’ateismo di Leopardi ora celebrano la sua fierezza, ora il tecnicismo della sua canzone liberato dai gravami della tradizione anche se da essa scaturita, ora il soave lirismo.

E se molti lo tirano  per la giacchetta nell’ambito del materialismo o del sensismo, non credere che il buon Cattolicesimo, tradizione avita del nostro Paese, si faccia sottrarre un popò di nome del genere.

Qui entra la mia biografia: ero all’Università quando feci amicizia con un gruppo di ragazzi cattolici che si riunivano e cantavano, discutevano di letteratura.

Mi divertii molto con loro. Tanto più che io vivevo nella più affollata solitudine dei miei problemi adolescenziali. Tanto più che quei ragazzi che mi accolsero avevano i miei stessi principi.

Se non che, una ragazza allegra e giuliva di loro, preso l’argomento Giacomo, mi parlava del Leopardi cristiano.

Come Leopardi cristiano?, ti domanderai. Non storcere il naso, Silvio. Anche i Cattolici vogliono annoverare un simile poeta al loro partito.

Leopardi, il Leopardi delle Operette, il Leopardi dei Canti, il magnifico poeta eccelso che tutti avrebbero voluto incontrare per stringergli le mani e ascoltare un tratto della sua favella piena di filosofi greci e poeti latini, di ebraico antico e di scrittori europei (tutti tranne i suoi contemporanei, si capisce), quel Leopardi era cristiano?

Ella, la mia amica, adduceva a ragionamento la parte finale de A la sua donna, quella che dice

Se dell'eterne idee
L'una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l'eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s'altra terra ne' superni giri
Fra' mondi innumerabili t'accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T'irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d'ignoto amante inno ricevi.

Rileggemmo quelle parole all’infinito.

La mia amica sosteneva nascondersi, sotto le spoglie della donna, Dio. Una canzone a Dio che non si era fatto vedere dal Leopardi, che gli era sparito dallo sguardo anche se il poeta lo sentiva, sapeva che da qualche parte dell’universo gli si nascondeva…

Ho sempre osteggiato questa lettura, pur ritenendo quella canzone fondamentale per capire di non dovere etichettare Giacomo.

La nostra discussione era appassionata e libera, coinvolgente e fiera, rispettosa dei punti di vista di entrambi. D’altronde eravamo degli universitari, né io né lei conoscevamo l’Annuncio delle canzoni del settembre 1825 che oggi leggo nell’edizione dei Canti a cura di Gallo e Garboli.

In esso il recanatese prende ad esempio proprio la poesia Alla sua donna per spiegare, nonostante la più breve e meno stravagante delle altre, che l’innamorata dell’autore è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia, nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o in una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la donna che non si trova. L’autore non sa se la sua donna (e così chiamandola, mostra di non amare che questa) sia mai nata finora, o debba mai nascere; sa che ora non vive in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei; la cerca tra le idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei de’ sistemi delle stelle. Se questa Canzone si vorrà chiamare amorosa, sarà pur certo che questo tale amore non può né dare né patir gelosia, perché fuor dell’autore, nessun amante terreno vorrà fare all’amore col telescopio[2].

Oggi pare che dire ragazza cattolica sia una bestemmia e non lo è. Quella ragazza era dolce ed affabile. Io già all’epoca, nonostante fossi cattolico e quindi avrei fatto bene a convenire con l’analisi della mia amica, non ero punto d’accordo con quell’interpretazione.

L’interpretazione! Ah, com’è importante! In nome dell’interpretazione si pestano vite di uomini innocenti per certi libri sacri e si pestano certi libri sacri in nome dell’interesse privato.

Tuttavia già all’epoca credevo che dire cristiano Leopardi non fosse giusto. Fosse giusto dire che Giacomo fu cristiano, nella sua giovinezza e che Cristo fosse la verità per lui in quel periodo.

Che poi, rivolgendosi al vero, avesse trovato che l’universo è vuoto e la vita umana insensatamente piena di dolore e morte.

Capire che Leopardi è un filosofo (tu dici nella Psicologia che non lo è) a cui preme la verità ed essendosi convinto che la sua verità fosse scomoda agli uomini, ebbe un atteggiamento eroico sino alla fine.

Il Giacomo, invece, del sogno e dell’illusione (se si vuole) che Leopardi stesso credeva essere morto non gli morirà mai (se non, forse, in punto di morte).

Quel passaggio dell’Annuncio in cui dice “se questa Canzone si vorrà chiamare amorosa...” potrebbe indulgere su una spiegazione vicina a quella della mia amica. Pure è forzata, come lettura, ed io ancora oggi propendo alla chiarezza con cui egli dice che si sta rivolgendo ad una donna che non esiste (o che esiste in qualche luogo lontano dell’universo e che non ha mai incontrato).

In definitiva, i suoi puerilia, adesso torno a loro, stanno lì a dimostrare non tanto un gusto per le morti dei grandi (Laocoonte, Cristo, Cesare) quanto il suo desiderio di proiettarsi in una vita che fosse grande, che splendesse.

Più che vuoti omaggi erano propositi di imitazione o di vita.

Con un linguaggio retorico, con un fare ancora incerto (d’altronde è giovanissimo quando scrive), ma con una sincerità di cuore come gli capiterà solo in alcune e grandi poesie dei Canti.

Molti critici e alcuni biografi dimenticano o passano velocemente oltre la giovinezza cristiana di Giacomo.

Era solito parlare di Cristo, del Vangelo. Chi lo ascoltava era profondamente interessato, toccato dalla sua sapienza.

Quello strappo che si ebbe tra il senso religioso e la vita (ambiente familiare asfissiante, Silvia, il mondo di fuori che lo chiamava con la voce e le braccia di Giordani), ebbe conseguenze drammatiche in lui.

Sicuramente l’Infinito riflette questo dramma. Però anche La vita solitaria e Le ricordanze. E in quanti versi di quante poesie ha scritto di questa giovinezza vana, spesa tra gente zotica e del suo rammaricarsi di illusioni vane che gli avevano riempito la vita,?

E in quanti versi di quante poesie si esalta e ci esalta per la speranza di una possibilità di vita e di poesia?

Se si facesse leggere, a una persona che non conosca Giacomo Leopardi, la chiusa de Il pensiero dominante o de Il risorgimento appresso a quelle de Il passero solitario e di A Silvia, al lettore non parrebbero due poeti distinti?

E i Canti non ci stanno a dire di un viaggio umano e poetico così complesso, come quello di ognuno di noi?

Eppure tutto quello che succede e quello che scrive dopo il 1819 possiamo ben dire che non ha nulla di religioso.

Attaccato a Recanati, non sarà forse offeso dal Tommaseo, scaricato dagli amici di Toscana e preso in giro dal popolino e dalla cultura napoletana, così ligia al dovere del pensiero cattolico?

La sua produzione non risponderà punto per punto a tutti costoro?

C’è, Silvio, una poesia dell’ultimo periodo che mi piace molto, I nuovi credenti.

La chiusa, anche qui, è tutto un programma. Se la si facesse leggere al lettore di prima parlerebbe di un terzo poeta.

Voi saggi, voi felici: anime elette

A goder delle cose: in voi natura

Le intenzioni sue vede perfette.

Degli uomini e del ciel delizia e cura

Sarete sempre, infin che stabilita

Ignoranza e sciocchezza in cor vi dura:

E durerà, mi penso, almeno in vita.

Questo è Giacomo. Il Giacomo che fino alla fine non si arrende. Alla famiglia, agli zotici campagnoli delle Marche, agli infingardi invidiosi di Firenze, al volgare popolino napoletano, all’ipocrisia del suo secolo o alla onnipotente Natura, Giacomo non piega il capo.

E nell’ultima parte della sua vita torna a darci indizi sulla sua complessità.

Leopardi è cristiano in gioventù, Leopardi è ateo nella maturità.

Giacomo è stato un entusiasta conoscitore delle scritture, è divenuto uno scettico, poi sarà uno scettico che sbatte in faccia agli ipocriti anche l’ignoranza di non conoscere ciò che dicono di credere.

La citazione giovannea, ne La Ginestra, è spesso sottovalutata. Naturalmente avere citato Giovanni, le tenebre, la luce, può volere dire: voi vi ergete a giudici della Verità (a coloro che portano la luce) e siete nelle tenebre (la qual interpretazione ricalcherebbe parole di Cristo, comunque!).

Sicuramente l’epigrafe giovannea e la chiusa hanno qualcosa di dissonante: dunque la lettura dovrebbe essere che Giacomo dice loro di essere nelle tenebre in quanto la verità è la descrizione epica di questa ginestra fiore del deserto. “dove/ e la sede e i natali/ non per voler, ma per fortuna avesti”, recita la poesia.

Nella stessa Ginestra, dissonante alla citazione di un Vangelo, sono i famosi versi:

… e quante volte

favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

per tua cagion, dell’universe cose

scender gli autori, e conversar sovente

co’ tuoi piacevolemente, …

Ovviamente qui tutte le religioni rivelate, quelle olimpiche come il Cristianesimo, vengono messe fuorigioco dal pensiero leopardiano.

La sua visione è chiarissima.

D’altronde non era additato, ricordo, come un malaugurio dai Napoletani che lo ritenevano colpevole di avere irritato Dio con il suo pensiero e di avere fatto scatenare il colera in città?

Non gli mostravano che quel Cristianesimo a cui lui non credeva più era quella società macchiettistica della Roma gregoriana immortalata poi dal Belli o della Napoli borbonica che tanto splendeva come corte quanto era tenebrosa nei suoi bassifondi?

Come dare torto al Leopardi che dice che quello che i Cristiani professano è una religione non vera?

E qui l’errore. Non perché i Cristiani non riescano a praticare gli insegnamenti cristiani, questi insegnamenti non sono veri.

Non perché il sentimento religioso è uno e unico in ogni società umana e in ogni tempo, esso è meno vero.

La verità di Leopardi, però, oramai sovrasta anche la voce di Giacomo.

Almeno sino alla chiusa della sua ultima poesia. La chiusa della vita si conclude, per Giacomo, con la chiusa di una poesia.

C’è un modo più bello di spirare, per un poeta, che poetare?

Era successo a Petrarca, succederà a D’Annunzio e tanti altri.

Pare che in punto di morte, all’amico Ranieri, Giacomo oramai Leopardi dettasse il finale de Il tramonto della luna:

Ma la vita mortal, poi che la bella

giovinezza sparì, non si colora

d’altra luce giammai, né d’altra aurora.

Vedova è insino al fine ed alla notte
Che l'altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.

Le ultime parole poetiche.

In realtà senza la decisione di queste parole la poesia si sarebbe chiusa così:

(Voi, collinette e piagge)

… tosto vedrete il cielo

imbiancar novamente, e sorger l’alba:

alla qual poscia seguitando il sole,

e folgorando intorno

con sue fiamme possenti,

di lucidi torrenti

inonderà con voi gli eteri campi.

A questo finale astronomico Giacomo Leopardi aggiungere la comparazione del ciclo della Natura, del Sole e del giorno, con l’unicità della vita umana.

Ed è coerente con sé stesso. Ed è Leopardi.

Le ultime parole degli ultimi versi aggiunti mi hanno sempre fatto interrogare:

Notte, etadi, segno, Dei e sepoltura.

Su notte, etadi e sepoltura, ripeto, ritroviamo il nostro Leopardi che spiega Giacomo.

Però la parola Dei, all’ultimo verso, che significa?

“Segno poser gli Dei la sepoltura”.

Ora vabbè che la parola poetica è vaga, ma Dei è Dei.

Cosa significa, riallacciandomi alle parole della mia amica di università.

Che Leopardi è tornato ad essere cristiano in punto di morte?

Che gli sarà scappato?

Che non vuol dir nulla?

“Giacomo è rapito da scenari del genere, la paura è vinta dalla suggestione dello spettacolo, come accadrà poi, e non una sola volta, nei Canti: a lui o alle sue controfigure”, hai scritto alla fine del tuo articolo, caro Silvio.

Se ne La morte di Abele (1810) tutto respira di inno cristiano “scorre sdegnato il Nume infra i baleni” nel Tramonto (1837) alla chiara volontà di conservare e difendere la sua verità, affianca questa sola parola che ci tormenta.

Leopardi non è cristiano. Leopardi si considera un filosofo solitario perché portatore della verità triste che la vita è breve e conclude tutto.

Al Leopardi convinto del suo scetticismo sarà scappato un raggio di Giacomo, il Giacomo speranzoso e credente, fiducioso e allegro dell’inizio. Perché Giacomo era allegro, era intelligente, aveva grandissima voglia di vivere e credeva.

Non a caso, quando spiego di lui dico sempre che è un poeta complesso e che la sua vita è stata una grande vittoria contro l’ipocrisia di una società che dice di credere ma non fa nulla per credere.

Dunque, concludendo, caro Silvio, hai ben scavato quello che Leopardi voleva togliere a Giacomo, il sogno in cambio della gloria.

Si ripropone, così, nella tenzone Giacomo e Leopardi (come la tenzone Dante e Alighieri o Ugo e Foscolo, il mio metro è esportabile) un dilemma sempre attuale.

Lo Zibaldone è stato scritto in un lungo periodo, le Operette in uno breve (come i Puerilia), i Canti soltanto hanno un percorso lungo tutta la vita.

Dunque il dilemma è capire quando Giacomo Leopardi, se mai abbia raggiunto la verità, si è avvicinato al vero: da giovane o da adulto?

Questo dilemma è insanabile e mi richiama alla mente un dilemma (tutto dottrinario e cattolico) messo in atto magistralmente dall’ironia acutissima di Giuseppe Gioacchino Belli nel sonetto La risurrezzion de la carne:

Smorzato er Zole e sfracassato er Monno,

tutte le ggente che la terra ha ffatte

anneranno a la val de Ggiosaffatte,

dove sce ponno entrà cquanti che vvonno.

Tra er padre, er fijjo, er nonno e lo sbinnonno,

vecchi bbavosi e ccrature de latte,

ommini de ggiudizzio e tteste matte,

nun ce sarà nné pprimo né ssiconno.

Llà ttutti-cuanti iggnudi e ssenza panni

rinassceremo come Adamo e Eva,

e averemo d’avé ttrentatré anni.

Chi mmorze de ppiú età jje se ne leva:

li piccinini se sò ffatti granni:

duncue oggnuno averà cquello c’aveva.

Roma, 25 gennaio 1833

Giacomo vive nei suoi Canti accanto a Leopardi e giustamente il Leopardi che ha vissuto la sua vita in una società di uomini tanto meschina ne ha denunciato tutte le falsità. Una società di credenti e non credenti che gli si è opposta o ha cercato di impossessarsi del suo nome per avallare certe idee in opposizione ad altre.

Giacomo Leopardi, invece, merita il rispetto di chi ha sempre lottato per la verità, ancorché nella sua anima non fosse più una verità trascendente e rivelata ma una verità materiale e finita.

Tuttavia quel segno, la sepoltura, (come la chiusa di A Silvia) questa volta sono gli Dei a indicarla (anche la Speme, ultima dea, fugge i sepolcri). E ciò è significativo. La sepoltura è segno della vita. Della vita che finisce, chiaro, ma quella parola così antica in lui, dèi, pronunciata alla fine della vita, è stata il riscatto di una bontà che egli, nonostante tutti i dolori e le torture che ha dovuto subire, ha conservato. Un lato umano molto più vicino al sentimento religioso dei suoi primi anni che quella società di nuovi credenti finti e interessati o quella di materialisti incalliti e allo stesso modo interessati.

Nella guerra degli interessi a lui è interessata solo la verità, solo capire l’uomo chi è, cosa è.

Lo struggimento suo e lo struggimento di ognuno (sotto un cielo stellato, ad esempio).

Caro Silvio, forse nella sua esistenza il nostro amico è stato realmente convinto di avere perso sia il sogno (la capacità di sognare) di Giacomo che la gloria di Leopardi.

Invece ha conservato entrambi e ce li trasmette, con l’adamantina forza di genuinità di cui è capace, ogni volta che vogliamo parlargli e perciò apriamo la nostra copia dei suoi magnifici Canti.

Di modo che si potrebbe a Giacomo e Leopardi, a Giacomo Leopardi, dedicare quel breve epigramma che il Bertola dedicò a Torquato Tasso (che il nostro amico aveva inserito nella sua Crestomazia poetica) e che ho posto ad epigrafe.

Due chiare itale genti entrano in guerra

per te già estinto, e ti vuol suo ciascuna:

e vivo, ignudo errar di terra in terra

ti vider tutte, e non ti volle alcuna.

(Epigrammi – A Torquato Tasso – Aurelio de’ Giorgi Bertola)[3]

Molti miei cari saluti fraterni di buona poesia!

Auguri di buon Natale!

Vito.

(Vito Lorenzo Dioguardi)

 

Forse la risposta ce la dà il Giacomo che preparava la pubblicazione dei suoi 111 Pensieri (riflessioni particolari tratte dallo Zibaldone.

Nella LXXXIV e nella LXXXV parla di Gesù Cristo e del Vangelo.

"Gesù Cristo fu il primo che distintamente additò agli uomini quel lodatore e precettore di tutte le virtù finte, detrattore e persecutore di tutte le vere; quell’avversario d’ogni grandezza intrinseca e veramente propria dell’uomo; derisore d’ogni sentimento alto, se non lo crede falso, d’ogni affetto dolce, se lo crede intimo; quello schiavo dei forti, tiranno dei deboli, odiatore degl’infelici; il quale esso Gesù Cristo dinotò col nome di mondo, che gli dura in tutte le lingue colte insino al presente. Questa idea generale, che è di tanta verità, e che poscia è stata e sarà sempre di tanto uso, non credo che avanti quel tempo fosse nata ad altri, né mi ricordo che si trovi, intendo dire sotto una voce unica o sotto una forma precisa, in alcun filosofo gentile. Forse perché avanti quel tempo la viltà e la frode non fossero affatto adulte, e la civiltà non fosse giunta a quel luogo dove gran parte dell’esser suo si confonde con quello della corruzione.
Tale in somma quale ho detto di sopra, e quale fu significato da Gesù Cristo, è l’uomo che chiamiamo civile: cioè quell’uomo che la ragione e l’ingegno non rivelano, che i libri e gli educatori annunziano, che la natura costantemente reputa favoloso, e che sola l’esperienza della vita fa conoscere, e creder vero. E notisi come quell’idea che ho detto, quantunque generale, si trovi convenire in ogni sua parte a innumerabili individui."

"Negli scrittori pagani la generalità degli uomini civili, che noi chiamiamo società o mondo, non si trova mai considerata né mostrata risolutamente come nemica della virtù, né come certa corruttrice d’ogni buona indole, e d’ogni animo bene avviato. Il mondo nemico del bene, è un concetto, quanto celebre nel Vangelo, e negli scrittori moderni, anche profani, tanto o poco meno sconosciuto agli antichi. E questo non farà maraviglia a chi considererà un fatto assai manifesto e semplice, il quale può servire di specchio a ciascuno che voglia paragonare in materia morale gli stati antichi ai moderni: e ciò è che laddove gli educatori moderni temono il pubblico, gli antichi lo cercavano; e dove i moderni fanno dell’oscurità domestica, della segregazione e del ritiro, uno schermo ai giovani contro la pestilenza dei costumi mondani, gli antichi traevano la gioventù, anche a forza, dalla solitudine, ed esponevano la sua educazione e la sua vita agli occhi del mondo, e il mondo agli occhi suoi, riputando l’esempio atto più ad ammaestrarla che a corromperla."


[1] Epigrammi – A Torquato Tasso – Aurelio de’ Giorgi Bertola in Crestomazia italiana. La poesia di Giacomo Leopardi, a cura di Giuseppe Savoca, Einaudi Editore, 1968, pag. 382

[2] Annuncio delle Canzoni, in Giacomo Leopardi – Canti – a cura di Niccolò Gallo e Cesare Garboli, Einaudi Editore 1983 pag. 329

[3] Epigrammi – A Torquato Tasso – Aurelio de’ Giorgi Bertola in Crestomazia italiana. La poesia di Giacomo Leopardi, a cura di Giuseppe Savoca, Einaudi Editore, 1968, pag. 382

 

Il Garda, prima immagine dell'Italia nella mitografia goethiana

da Viaggio in Italia (1816)

di Johann Wolfgang von Goethe

 

Quello che Goethe, a 37 anni, nel 1813, intraprende non è un semplice viaggio ma è "il" viaggio.

Il Settecento, secolo internazionalista, illuminista, moderno, sostituirà una volta per tutte con il francese il millenario latino, come lingua mondiale, mentre inizierà la moda dei viaggi in Italia come meta di pellegrinaggio verso la riscoperta dell'antichità e/o per completamento necessario di esperienza culturale data la straordinarietà dell'arte, della musica, della cucina e di tante particolarità che facevano del nostro Paese una terra unica al mondo.

Goethe non solo non si sottrasse a questa moda del pellegrinaggio italico, ma subito ne restò affascinato.

 

Torbole, 12 Settembre, dopo pranzo

Quanto vorrei che i miei amici fossero per un attimo accanto a me e potessero godere della vista che mi sta dinnanzi!

Stasera avrei potuto raggiungere Verona, ma mi sarei lasciato sfuggire una meraviglia della natura, uno spettacolo incantevole, il lago di Garda;

Non ho voluto perderlo, e sono stato magnificamente ricompensato di tale diversione. Poco dopo le cinque partii da Rovereto e presi per una valle laterale, le cui acque scendono all’Adige. Quando si arriva in cima, si vede sporgere da dietro un enorme sbarramento roccioso, che bisogna oltrepassare per scendere al lago. Qui ho visto bellissime rocce calcaree per uno studio di pittura.

•Giunti in basso, si trova un paesello affacciato all’estremità settentrionale del lago, con un piccolo porto, o per meglio dire un approdo, chiamato Torbole. Lungo il cammino gli alberi di fico mi avevano già tenuto spesso compagnia, e quando scesi giù per l’anfiteatro di roccia trovai i primi ulivi carichi di olive. Qui incontrai anche per la prima volta, come frutto ordinario, i piccoli fichi bianchi che mi aveva promesso la contessa Lanthieri.

Dalla stanza dove mi trovo una porta conduce al cortile sottostante; vi ho spinto davanti la tavola e ho disegnato a grandi linee il panorama. Si vede il lago per quasi tutta la sua lunghezza; solo in fondo a sinistra esso si sottrae al nostro sguardo. Ambedue le rive, incassate fra colline e montagne, risplendono di innumerevoli piccoli paesi.

Dopo la mezzanotte il vento soffia da nord verso sud; perciò, chi vuole discendere il lago deve partire a quell’ora, poiché i venti cambiano direzione qualche ora prima del sorgere del sole e soffiano verso nord.

Adesso, di pomeriggio, il vento mi spira decisamente all’incontro e attenua gradevolmente la vampa del sole. Nello stesso momento il Vokmann m’informa che questo lago un tempo si chiamava Benacus, e cita un verso di Virgilio che lo ricorda:

Fluctibus et fremitu resonans Benace marino

E’ il primo verso latino il cui contenuto mi stia vivo davanti agli occhi; e nel momento che il vento diventa sempre più forte e il lago batte l’approdo con onde sempre più alte, è vero ancor oggi come tanti secoli fa.

Molte cose sono cambiate, ma il vento agita ancora il lago, e lo spettacolo che si gode è ancor sempre nobilitato da un verso di Virgilio.

Scritto al quarantacinquesimo grado e cinquanta minuti primi di latitudine.

Sono andato a passeggio nella frescura serale, ed è proprio un paese nuovo, un ambiente affatto diverso quello in cui mi trovo adesso. La gente vive una vita rilassata, noncurante: prima di tutto le porte non hanno serrature, ma l’oste mi assicurò che potevo star tranquillo, anche se tutto il mio bagaglio fosse consistito di diamanti;

in secondo luogo le finestre sono chiuse da carta oleata anziché da vetri; infine manca una comodità molto importante, dimodoché si è abbastanza prossimi allo stato di natura. Quando chiesi al servo come soddisfare una certa necessità, egli accennò al cortile di sotto: «Qui abasso può servirsi!». Io gli domandai: «Dove?». «Da per tutto, dove vuol!» rispose cortesemente. In ogni cosa si manifesta qui a massima trascuratezza, ma anche molta vitalità e operosità. Tutto il giorno si dove tra le vicine un cicalare, un gridare, e nello stesso tempo tutte hanno da fare qualcosa, da attendere a qualcosa.

Non ho ancora visto una donna starsene in ozio.

Con enfasi italiana l’oste mi annunziò che era felice di potermi servire una trota squisitissima. Le pescano vicino a Torbole, dove il torrente scende dalla montagna e i pesci tentano di risalire la corrente. L’imperatore ricava da questa pesca diecimila fiorini di appalto. Non sono come le nostre trote: sono grosse, pesano a volte anche cinquanta libbre e sono punteggiate lungo tutto il corpo fino alla testa; il sapore sta fra la trota e il salmone, ottimo e delicato.

Ma la mia vera delizia sono le frutta, i fichi e anche le pere, che qui, dove già crescono i limoni, devono essere eccellenti.

 

13 Settembre, sera


Alle ore tre di stamane partii da Torbole con due barcaioli. Sul principio il vento era favorevole, tanto che poterono spiegare la vela. La mattina era splendida, bensì nuvolosa, ma, all’albeggiare, tranquilla. Passammo davanti a Limone, dagli orti ripidi disposti a terrazze e piantati a limoni, che offrono un florido e lindo panorama. Ogni orto consiste di file di pilastri bianchi quadrangolari, che, a una certa distanza, l’uno dall’altro, risalgono il monte a gradinate.

Sopra i pilastri sono posate robuste pertiche per proteggere d’inverno gli alberi piantati negl’intervalli.

La lentezza del viaggio era propizia alla vista e all’osservazione di tutti quei bei particolari, e stavamo già oltrepassando Malcesine quando il vento cambiò bruscamente e soffiò nella direzione normalmente tenuta di giorno, cioè verso nord. I remi servivano a poco contro la violenza delle acque; dovemmo perciò approdare nel porto di Malcesine, prima località veneziana sulla sponda orientale del lago. Quando si ha a che fare con l’acqua non si può mai dire: oggi sarò qui oppure sarò là. Penso di sfruttare nel miglior modo questa sosta, soprattutto per fare un disegno del castello, elegantemente posto a specchio dell’acqua. Oggi, passandovi davanti in barca,  ne ho già ripreso uno schizzo.


14 Settembre


Il vento contrario che mi sospinse ieri nel porto di Malcesine mi ha procurato un’avventura pericolosa, che però ho sopportato di buon umore e che nel ricordo mi appare divertente. Come mi ero proposto, stamattina di buon’ora mi sono recato al vecchio castello, il quale è accessibile a chiunque, essendo privo di porte, custodi e di sentinelle. Mi sedetti nel cortile di fronte alla vecchia torre, costruita sulla roccia viva; avevo trovato un comodissimo posticino per disegnare: entro il vano d’una porta chiusa, alta tre o quattro gradini dal suolo, un sedile di pietra lavorata, come ancora se ne trovano anche nei nostri vecchi palazzi.

Non ero lì da molto, quando varia gente entrò nel cortile e prese a osservarmi andando e venendo. Il gruppo s’infittì. Era evidente che il mio disegno li aveva incuriositi; io però non mi lasciavo disturbare e proseguivo tranquillo. Alla fine un uomo dall’aspetto non molto rassicurante si aprì un varco fino a me e domandò cosa stavo facendo. Gli risposi che ritraevo la vecchia torre per conservare un ricordo di Malcesine. Lui replicò che non era permesso e che me ne andassi. Poiché aveva parlato in un rozzo vernacolo veneto, quasi incomprensibile per me, gli risposi che non avevo inteso. Allora, con flemma tutta italiana, egli afferrò il mio foglio, lo strappò e poi lo rimise sul cartone.

 

PREMI e CONCORSI DI NARRATIVA E DI POESIA

L'attività culturale, in Italia, è forse meno illustre che nel passato ma certo più rigogliosa.

La democratizzazione della narrativa (di chi scrive), la diminuzione dei lettori attivi e l'emarginazione sociale e morale della poesia hanno prodotto un gran numero di concorsi e premi letterari ma una netta sospensione dell'attività pubblica dei poeti e dei letterati o, per lo meno, il loro depotenziamento a fenomeno di nicchia, ininflente sulle sorti del Paese e assolutamente autocelebrativo.


Questa è una selezione dei siti e dei premi e concorsi letterari che conosco:

 

SITI

 

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PREMI
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GENNAIO

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