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Blog letterario

Sulle polemiche per il Nobel della Letteratura a Dylan

Se gli accademici di Svezia volevano far parlare del Nobel ci sono riusciti. Negli annali del prestigioso premio internazionale, forse quello più universalmente conosciuto, ci è finito, sotto la dicitura "letteratura" quello che è stato definito un saltimbanco, un cantastorie e cose così.

Le polemiche sono continuate, poi, solamente in Italia, alimentate sulla rivista Poesia, dal poeta Sangiuliano (Giuliano Santageli). Il suo articolo, per quanto dotto e rifinito di una logica tutta puritana - e crociana - rispetto a ciò che è poesia e cosa non è, tra i tanti che non ha convinto può annoverare anche me.


Dico subito che condivido, della lunga dissertazione di Nicola Crocetti, il punto finale, è un'attribuzione anacronistica e falsata. Aggiungo subito che in maniera più diligente, a mio parere, Alessandro Carrera ha tentato di spiegare che il fenomeno Dylan è unico e irripetibile "non è né un poeta né un non-poeta". Chiarisco sin da subito che non conosco Dylan ma l'ho incontrato. Non conosco le sue canzoni, ho letto degli stralci, ci sono delle parole che nel complesso hanno un sapore poetico e se le avessi lette nella rivista Poesia sotto il nome di uno dei tanti poeti minori che con solerzia e amore per l'arte proponete, queste non avrebbero sfigurato. Ho conosciuto Dylan, però, come dicevo. Venne, alcuni anni fa, a tenere un concerto in Italia. A Roma? No! A Milano? No! Al Teatro Mediterraneo, a Foggia, la mia città.- Questo cantastorie, se piace chiamarlo così, ha girato l'America, il mondo, famoso dappertutto, riempirebbe stadi con facilità eppure è venuto a tenere un concerto in una città dell'Italia che moltissimi artisti italiani hanno disertato e disertano. Sarà sicuramente stato per motivi commerciali, sarà stato benissimo per pubblicità, ma vi assicuro che questo fatto, all'epoca, mi impressionò. Sbirciando dai cancelli vedevo quest'uomo di chiara fama intrattenere un pubblico escluso dalla cultura ufficiale, emarginato dai grandi artisti e scansato, ignorato, vilipeso anche e soprattutto dai grandi poeti nazionali.

Detto questo mi propongo di sottoporre alla vostra attenzione qualche considerazione che è ai più sfuggita.

Se vi saranno imperfezioni, coloro che hanno più cultura di me perdoneranno in favore di una riflessione sul ragionamento.

Per primo, gli antichi. La poesia è nata in concomitanza con la musica. Omero cantava presso le corti di Grecia con l'accompagnamento di strumenti a corda o a fiato.

Tra Greci e Romani era in voga considerare le arti come sorelle. Euterpe, musa della musica, è tra loro.

Il nostro tempo privilegia alcune arti e svilisce altre. Sostengo dunque che a livello culturale l'uomo moderno sia meno ricco e completo degli antichi. La stessa società si fonda sull'idolatria. Idolatria per Dylan, idolatria per la Poesia (tutti ci sentiamo poeti, in fondo).

Se le muse sono sorelle, musica e poesia hanno pari dignità.

Questa unità è stata poi spezzata dal trivio e quadrivio medievale. Nelle arti tecniche, il quadrivio, veniva ricompresa la musica, in quelle umanistiche, il trivio, grammatica, retorica e dialettica.

Ancorché divise, mantennero comunque una dignità propria.


Per arrivare ai nostri giorni, fermo restando che le riforme poetiche, dantesca-petrarchesca e leopardiana, hanno sempre mantenuto uno stretto rapporto tra verso e musica, siamo stati noi moderni a preferire versi diversi, versi amusicali, del tutto liberati da uno schema metrico. Questa che è parsa ai più libertà è sicuramente un limite, per la poesia di oggi, perché ha evirato la Poesia del prezioso accompagnamento del ritmo.

L'anomalia nella poesia, dunque, è di un secoletto e mezzo,  mentre per migliaia di anni la poesia e la musica sono stata la stessa cosa.




Questione seconda benché non di second'ordine, anche perché agganciata alla diaspora prima detta, è lo scarso valore che la poesia ha per la società di oggi.

Una rivista come Poesia, con lode pubblicata da Crocetti, con lode supportata da validi collaboratori e con lode incoraggiata da un gruppo di lettori interessati, ha bisogno di sponsor (nulla di male in questo) per potere continuare l'opera meritoria che compie: trasmettere il valore eterno della poesia a questa e le future generazioni. Dico eterno, senza scorno per nessuno.

Cosa vale la poesia, oggi? Dove la si trova? Chi la cura? Ridotta a prodotto e prodotto di nicchia, viene coltivata nelle Università, spesso male, da esimi professori, a volte anche per passione, viene seguita da pochissimi seguaci (ricorda il primissimo Cristianesimo) e relegata ai margini di una società che del Calcio, dello Star System e dei reality ha fatto dei grassi idoli a cui votare applausi e lauti compensi, oltre che la propria intelligenza.

Il nome dei poeti dovrebbe essere gridato nelle piazze, essere sventolato sui tetti. Bisognerebbe invitare i poeti alle trasmissioni politiche, dovrebbero avere programmi culturali in prima serata, potrebbero avere sovvenzioni (come avviene in altri Stati). Spazio, respiro.

In televisione reality, a scuola reality. In televisione poesia, a scuola poesia.

I poeti italiani dovrebbero essere partecipi del riscatto etico-morale di una nazione che è invece rinsecchita, ripiegata, falcidiata nelle proposte poetiche e culturali da una valanga di mediocrità che dovrebbe inorridire.

I poeti italiani, si diceva. Sicuramente voi, amici di Poesia, ma poi chi? Chi sono i poeti oggi? Chi stabilisce chi siano i poeti? Carrera afferma che c'è tanta mediocrità nella poesia, oggi, non trovandomi d'accord. Oramai sono tanti i giovani che si autopubblicano, io sono tra loro. Sono tanti coloro che sfuggono alle dinamiche commerciali che sempre hanno irretito lo sbocciare o meno di poesia. Questa poesia dal basso che la tecnologia ci permette, mischia i contorni della poesia. A una ufficiale, seguita da pochi adepti, corrisponde una richiesta, un'esigenza, una domanda di poesia dal basso che è davvero entusiasmante. (Siamo al livello di Dylan, la complessità dei cui testi è, ad una buona lettura, accessibile ai più).

Dunque, se si volesse riscattare la Poesia, l'Italia e il mondo tutto da questa dimensione di mediocrità a causa dell'esclusione della Poesia dal centro della società, si dovrebbe ristabilire un'alleanza e un'unità tra gli innamorati della Poesia, senza serie A e serie B (quello che si fa contestando Dylan. Giusto contestare lui come persona non lui come fenomeno).


Sono convinto di avervi stufato e chiuderò questa mia riflessione con quest'ultimo pensiero.

La poesia che sino a D'Annunzio agiva nella società e la trasformava, o sino a Pasolini, con poeti validi come Raboni, la Merini, Luzi e altri ha cominciato a subire un processo di disaffezione nel grande pubblico che dovrebbe far riflettere.

La musica e la poesia devono tornare sorelle.

Un esempio di questo solenne connubio è rappresentato da una poesia del 1883, San Martino, un tempo studiata a scuola.

Sapete come ha fatto a ritornare in voga, sebbene per breve stagione? Nel 1993 in tutte le discoteche d'Italia si saltava sulle note tunz tunz di un artista siciliano che cantava "La nebbia agli irti colli/piovigginando sale...". Dubito che tutti abbiano riconosciuto fosse di Carducci. Tant'è. Quell'artista è Fiorello. Dimostrava quanto io indegnamente ho cercato di dimostrare con questo mio intervento.


E magari Dylan sembrerà un poeta e Foggia (le periferie dimenticate dalla poesia) anch'essa una città che con le sue contraddizioni e le sue bassezze è medesimamente degna di ricevere la speranza della poesia.

 

 

Il Premio Nobel a Dylan e i polemisti

 

Nel numero 322 della rivista Poesia, rivista di strepitosa levatura morale e professionale, attenta lettrice dell'oggi, di solito, con le sue rubriche, proiettata nel futuro, scopritrice di talenti, ancorata alla solidità delle tradizioni poetiche, specie europee, vi è l'intervento, condiviso dalla redazione, circa il Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan. Il lungo e colto discorso asserisce, in definitiva, con buone dosi di ironia e sarcasmo e un'aggiunta di sagace polemica, che l'Accademia Svedese distribuisce ultimamente il Premio a "cani e porci", come si direbbe dalle mie parti.

 

La letteratura è altro dalla musica, la poesia poi, con quell'azzurra eterea paradisiaca ancestrale solenne levità reca nella distanza che intercorre tra la sua dorata maestà e l'estrazione popolare, volgare e meticcia dell'altra tutto il carico di cultura che distanzia da millenni patrizi e plebei.

Lungi dalle mie intenzioni difendere il Nobel a Dylan, di cui non conosco le canzoni. Conosco lui, però, essendo venuto, a sorpresa, un musicista del suo calibro, a suonare nella mia città, Foggia, meta disdegnata da molti musicisti italiani figurarsi se la metà delle star mondiali della musica ne conoscono il nome.

 

Osservazioni ve ne sono molte, a quel colto articolo.

Prima, consiglio di rileggere Iliade e Odissea, senza le quali non esisterebbe la Poesia.

Esse sono versi musicali, recitati ad arte nelle reggie greche, accompagnati dalle note di arpe e flauti. Non a caso. E la commedia, i versi pascoliani e quelli dannunziani, quelli leopardiani prima e quelli luziani poi, non hanno musicalità?

Seconda, un testo poetico è musicabile, esempio ne sia il tentativo di Fiorello con "La nebbia agli irti colli" mixata su una base di moderna orecchiabilità disco.

Terza, probabilmente alla poesia come voce ufficiale della cultura del mondo mancano autocritica e senso dell'attualità. Non solo non è più letta e ascoltata, non più incisiva e decisiva per le sorti delle società, ma anche ignorata e infamata.

 

Se la cultura poetica non è più incisiva e si dà un Premio Nobel ad un musicista che scrive testi poetici, perché la poesia è un concetto filosofico le cui forme sono molteplici.

 

Le polemiche, dunque, sono stucchevoli e non aiutano la domanda principali che rende frustrante il resto: perché la Poesia non incide più nel mondo? Cosa può tornare ad incidere?

Come si porta Poesia agli altri?

 

Se queste sono domande sulle quali arrovellarsi, sarà più utile interrogarsi sulle vicende che caratterizzeranno i testi poetici del futuro, come lessico e forma.

 

Premio Nazionale di Narrativa "Valerio Gentile" XXesima edizione




PREMIO NAZIONALE NARRATIVA

Valerio Gentile”

BANDO XX Edizione

Il Concorso è riservato a opere di narrativa inedita, in lingua italiana

  • Sezione 1: Romanzo breve o raccolta di       racconti
  • Sezione 2: Racconto breve

Possono partecipare autori italiani o di diversa nazionalità,  che al 31/12 /2016 abbiano un'età inferiore ad anni 30.

- Il romanzo breve o la raccolta di racconti dovrà avere una lunghezza non inferiore a 60 e non superiore a 80 cartelle (da 2000 battute ciascuna, compresi spazi bianchi);

- Il racconto breve dovrà avere una lunghezza tra 5 e 10 cartelle (da 2000 battute ciascuna, compresi spazi bianchi).

Possono essere inviate più opere dello stesso autore.



Alle composizioni designate dalla Giuria saranno assegnati i seguenti premi:

Sezione 1

1° PREMIO
- Pubblicazione dell’opera nella prestigiosa
Collana Pochepagine di Schena Editore
- 20 copie del volume premiato
- Diploma di merito.
- Libri di Schena Editore.
2° PREMIO
- Diploma di merito.
- Libri di Schena Editore.
3° PREMIO
- Diploma di merito.
- Libri di Schena Editore.

Sezione 2

1° PREMIO

Ai primi 12 racconti classificati, raccolti in una antologia e pubblicati nella Collana Meridiana di Schena Editore, verranno assegnati i seguenti premi:

  • n. 3 copie della pubblicazione
  • Diploma di merito
  • Libri di Schena Editore

- La partecipazione al Concorso è completamente gratuita.

- Le opere, in unica copia cartacea più una copia via email, e con firma autografa dell'autore, nome, cognome, fotocopia di un documento di identità,
indirizzo completo, numero telefonico e sinossi (solo per la sezione 1), dovranno essere inviate entro il

30 aprile 2017

Copia cartacea


- a    CENTRO STUDI "VALERIO GENTILE"

c/o Nicola Gentile
Via F.lli Rosselli, 61 - 72015 FASANO (BR)
Tel. 348/4056218

Copia digitale

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- Le composizioni inviate non saranno restituite. Quelle non pubblicate verranno raccolte in volume unico che resterà a disposizione delle biblioteca del Centro Studi Valerio Gentile".

- Il giudizio della giuria è insindacabile: la stessa potrà decidere, in caso di testi di dubbio valore, di non assegnare il primo premio.

- Tutela dei dati personali: il trattamento dei dati,di cui garantiamo la massima riservatezza, ai sensi della L. 196/2003, è effettuato esclusivamente ai fini del presente concorso.

- Diritti d'autore: la partecipazione al concorso costituisce espressa autorizzazione alla pubblicazione dell'opera da parte di Schena Editore, nonchè la cessione alla stessa Casa Editrice dei diritti di autore (relativi alla prima edizione) a titolo gratuito, a fronte delle copie omaggio ricevute all'atto della premiazione. Il rapporto tra autore ed editore sarà sancito da formale contratto di edizione.

- Dichiarazione: ogni partecipante deve obbligatoriamente inviare una dichiarazione sottoscritta nella quale, sotto la propria responsabilità, dichiara che:

  • l'Opera inviata è INEDITA;
  • che conosce il REGOLAMENTO del Concorso.

- La Giuria per i lavori partecipanti alla sezione 1, è costituita dallo scrittore Paolo Di Paolo, in rappresentanza del Centro Studi "Valerio Gentile", un rappresentante di Schena Editore, dalla blogger e scrittrice Cristina Mosca e dal giornalista scrittore Antonio Gurrado, in rappresentanza dei vincitori del Premio "Valerio Gentile".

- La Giuria per i lavori partecipanti alla sezione 2, sarà costituita da un gruppo di 15 studenti delle scuole secondarie superiori di Fasano, coordinati da un docente.

- La premiazione avverrà a Selva di Fasano (Br) presso il rist. “Il Fagiano” nell’estate 2017.

- Per ulteriori informazioni e per la richiesta dei volumi che hanno vinto le edizioni precedenti rivolgersi a:


Schena Editore – Via Dell’Agricoltura, 63/65 - 72015 Fasano (BR)
tel. 327.3411872

info@schenaeditore.it
www.schenaeditore.com

TESTIMONIAL del Premio Nazionale di Narrativa “Valerio Gentile”

PUPI AVATI
- regista e scrittore -

 

 

Poesia n.321 - recensione

 

Di Seamus Heaney, il Virgilio irlandese, potremmo sottolineare la peculiarità di un doppio interesse: quello morboso del critico che cerca queste apposizioni ingombranti, questi confronti spietati, e quel senso di pochezza che lascia una traduzione specie se è una non buona traduzione.


Vero che egli esprime, come Francesco Kerbaker ci invita a pensare, il metro classico della tradizione inglese che è formulato sul metro classico latino, il pentametro giambico; vero anche che cita l'Inferno dantesco in riferimento all'episodio Virgilio-Caronte, tuttavia sfugge una relazione più profonda tra i due che non sia l'encomio dell'uno per l'altro.


Pure, come accennato, a me colpisce, più e prima di tutto quello che la sua poesia è e quello che diventa in mano ad altri, altra cosa, forse altra poesia.

Penso al componimento Digging che il traduttore, Marco Sonzogni, interpreta con il titolo "Scavare" mentre anche un non esperto di inglese come me e un ancora meno esperto di inglese di me come Google Traduttore sanno la differenza tra l'infinito e il gerundio, più potentemente ancora nella resa in Italiano.

To Dig significa Scavare e Digging è la forma del nostro Scavando.

Dunque intitolare una poesia in traduzione Scavare in luogo di Scavando è quello che la traduzione, almeno epistemologicamente e originariamente è, un tradimento, un trascinamento da una lingua all'altra, una riscrittura.


Nella poesia, poi, ad un più vicino arrangiamento semantico e sintattico, segue, improvviso e improvvido, la seguente trasformazione:


By God, the old man could handle a spade.

Just like his old man.


Per Dio, il mio vecchio la sapeva maneggiare, la vanga.

E così il suo.


Ora, corretto è dire che una volta che si traduca un testo, lo si tradisca, lo si trascina, trascinare per trascinare c'è gente che può bene portare in giro queste orripilanti parole d'origine per tanti giri quanti ne fece Achille attorno a Troia per vendicarsi della bellezza dell'eroe gentile, però tutto ha un limite.


Tradurre, infatti "the old man could handle a spade" con "il mio vecchio la sapeva maneggiare, la vanga" pone problemi di sovrabbondanza e di mistificazione. Sovrabbondanza intendo l'immissione nel testo italiano di parole e termini nuovi e soprattutto non indispensabili (il pronome "la"), potendo letteralmente tradurre con "il vecchio uomo poteva maneggiare la vanga".

Il capolavoro si attua, però, con il verso che segue: "Just like his old man" divenuto "E così il suo" dove abbiamo il fenomeno opposto a trasformare la poesia in qualcosa di altro, l'omissione.

Omissione di "like" come. Sarebbe stato più naturale seguire il corso delle parole, come fece Livingstone cercando le sorgenti del Nilo.

"Proprio come il suo vecchio uomo". Si è invece voluta evitare la reiterazione del termine "Vecchio uomo" che è un gioco linguistico deliberato da Seamus.

Gli si è fatto un piacere? Non credo.

Le traduzioni, allora, io credo che non siano altro che questo: amare le parole cercando di tradurle non di tradirle. Amare il poeta in modo da far sentire la sua voce non la nostra. Amare noi stessi cercando di non prendere ciò che non è nostro ma di imparare da esso.

Così, senza volere negare la mia simpatica ad uno sconosciuto senza colpe con sicuramente più di me merito artistico, da queste forme fantasiose di riscrittura vi allontani la mia Musa, per quanto possibile.

Se si deve tradurre un testo lo si ami prima al punto giusto da renderlo indispensabile alle parole che sceglieremo.


---



Seamus Heaney, the Irish Virgil, we could point out the peculiarity of a double attraction to the morbid critic who tries these bulky appositions, these comparisons ruthless, and that sense of inadequacy that leaves a kind translation if it is not a good translation.


True, he expresses, like Francis Kerbaker invites us to think, the classic measure of English tradition that is formulated on the classical Latin meter, the iambic pentameter; true even quoting Dante's Inferno in reference to the episode Virgil-Charon, however, escapes a deeper relationship between the two that is not the triumph of praise for each other.


Well, as mentioned, to me strikes, over and above all that his poetry is and what he becomes in the hands of others, else, maybe other poetry.
I think of the poem Digging for the translator, Marco Sonzogni, plays under the title "Dig" and also a British expert not like me and even less English than I experienced as Google translator knows the difference between the infinite and the gerund, still more powerfully in the yield in Italian.
To Dig means Dig Digging and is the form of our digging.
Therefore dedicate a poem in translation instead of Digging Digging is what the translation, at least epistemologically and originally, a betrayal, a drag from one language to another, a rewrite.


In the poem, then, to a closer semantic and syntactic arrangement, follows, sudden and improvident, the following transformation:


By God, the old man could handle a spade.
Just like His old man.


By God, my old knew the handle, the spade.
And so his.


Now, it is correct to say that once you translate a text, it is cheating, you drag, drag to drag there are people who may well carry around these horrifying original words for so many laps than they did Achille around Troy to avenge the gentle beauty of the hero, but everything has a limit.


Translate, in fact, "the old man could handle a spade" with "my old man knew the handle, spade" poses redundancy problems and mystification. Superabundance mean placing in the Italian text of words and new words and above all not indispensable (the pronoun "it"), he can literally be translated as "the old man could handle a spade."
The masterpiece takes place, however, with the following verse: "Just like His old man" became "And so her" where we have the opposite phenomenon to transform poetry into something else, the omission.
Omission of "like" like. It would have been more natural to follow the course of the words, as did Livingstone seeking the source of the Nile.
"Just like his old man." Instead it wanted to avoid the repetition of the term "Old Man" which is a language game decided by Seamus.
The has become a pleasure? I do not believe.
Translations, then, I believe they are nothing more than this: to love the words trying to translate them not to betray them. Loving the poet in order to make its voice heard not ours. Love ourselves trying not to take what is not ours, but to learn from it.
So, without wanting to deny my nice to a stranger without faults with certainly more than me artistic merit, these imaginative forms of rewriting you away my Muse, to the extent possible.
If you have to translate a text you love first to the right place to make it indispensable to the words we choose.



---



Seamus Heaney, el Virgilio de Irlanda, que podría señalar la peculiaridad de un doble atractivo a la crítica morbosa que trata estos aposiciones voluminosos, estas comparaciones implacable, y ese sentido de inadecuación que deja una traducción tipo si no es una buena traducción.


Es cierto que expresa, como Francisco Kerbaker nos invita a pensar, la medida clásica de la tradición Inglés que se formula en el medidor latín clásico, el pentámetro yámbico; cierto incluso citando el Infierno de Dante, en referencia al episodio Virgilio-Caronte, sin embargo, escapa a una relación más profunda entre los dos que no es el triunfo de elogio para el uno al otro.


Pues bien, como se ha mencionado, me llama la atención, por encima de todo lo que su poesía es y lo que se convierte en manos de los demás, de lo contrario, puede que otra poesía.
Pienso en el poema de excavación para el traductor, Marco Sonzogni, juega bajo el título "Dig" y también un experto británico no como yo, y aún menos de lo que experimenté Inglés como Google Traductor conoce la diferencia entre el infinito y el gerundio, todavía con más fuerza en el rendimiento en italiano.
Para Dig significa cavar y es la forma de nuestra excavación.
Por lo tanto dedicar un poema en la traducción en vez de cavar excavación es lo que la traducción, al menos epistemológicamente y originalmente, una traición, un lastre de un idioma a otro, una reescritura.


En el poema, a continuación, a una disposición más cerca semántica y sintáctica, de la siguiente manera, repentina y previsor, la siguiente transformación:


Por Dios, que el anciano pudiera manejar una pala.
Al igual que su padre.


Por Dios, mi viejo conocían el mango, la pala.
Y por lo que su.


Ahora bien, es correcto decir que una vez que traducir un texto, es hacer trampa, que arrastra, arrastre para arrastrar hay personas que bien puede llevar a todas partes estos terribles palabras originales de tantas vueltas que lo hicieron alrededor de Aquiles Troya para vengar la suave belleza del héroe, pero todo tiene un límite.


Traducir, de hecho, "el anciano podía manejar una pala" con "mi viejo sabía el mango, la pala" plantea problemas de redundancia y la mistificación. Sobreabundancia implicar la colocación en el texto italiano de palabras y palabras nuevas y sobre todo no indispensable (el pronombre "él"), que puede ser traducido literalmente como "el anciano pudiera manejar una espada."
La obra de arte se lleva a cabo, sin embargo, con el siguiente verso: "Al igual que su viejo" se convirtió en "Y por lo que su" donde tenemos el fenómeno opuesto a la poesía transformar en otra cosa, la omisión.
La omisión de "me gusta" similares. Habría sido más natural para seguir el curso de las palabras, como lo hizo Livingstone buscando la fuente del Nilo.
"Al igual que su padre." En su lugar, quería evitar la repetición del término "viejo", que es un juego de lenguaje decidida por Seamus.
El se ha convertido en un placer? No creo.
Las traducciones, entonces, creo que son nada más que esto: amar las palabras que tratan de traducirlos no traicionarlos. Amar al poeta con el fin de hacer que su voz no se escucha la nuestra. Amamos a nosotros mismos tratando de no tomar lo que no es nuestro, sino para aprender de ella.
Así, sin querer negar mi amable con un desconocido y sin fallos con duda más que a mí mérito artístico, estas formas imaginativas de reescritura de lejos mi Musa, en la medida posible.
Si usted tiene que traducir un texto que amar primero en el lugar correcto para que sea indispensable para las palabras que elegimos.



Vito Lorenzo Dioguardi





 

I centri culturali del Rinascimento - Fontainebleu

Le idee del Rinascimento italiano, copiate, studiate, comprese, furono elaborate un po' in tutta Europa. Il Rinascimento fu un nuovo momento culturale unitario per l'Europa, un momento culturale unitario che avrebbe segnato in positivo il proseguio dell'arte e della letteratura del continente.

Di Erasmo da Rotterdam sappiamo bene e del suo spirito universale, ma al di là dei singoli artisti o letterati è una istituzione a risaltare per l'ambiziosità del progetto: la corte di Fontanebleu, una corte che in qualche modo andava ad essere costituita per gareggiare con la spagnola, di Carlo V.

A promuovere questa scuola artistica fu Francesco I, il quale aveva bene inteso come l'arte e la cultura dovessero far parte di un programma culturale studiato sin nel dettaglio.

Per questo a Fontainebleu radunò dei molti artisti tanti italiani: chiamò Leonardo da Vinci, Rosso Fiorentino, Benvenuto Cellini, tra gli altri.

Il concetto imitativo, di replica, di ricreazione del prodotto della corte e dell'accademia italiane doveva servire da modello a tutta Europa, ancora una volta.

Questo ha permesso che la divisione delle guerre e delle guerre di religione avesse per contraltare l'impegno pacifista e civile dell'arte a sostegno di un grande progetto unitario di promozione di uno spirito europeo che, come sappiamo, resterà un'utopia ancora ai nostri giorni.

 

 
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