Giovanni Pascoli e la grandezza delle piccole cose
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Quando si parla di Giovanni Pascoli si pensa subito alla sua"poetica delle piccole cose".
Pascoli è un ragazzo cresciuto in campagna, figlio di un fattore, ama e conosce la natura, i fiori e le piante, gli animali, gli attrezzi dei contadini... La sua educazione, il suo mondo rurale, la semplicità d'animo, tutto parla in Giovanni di "bellezza" se ci si accontenta, se si trova poesia anche in cose umili. Poesia che magari il mondo borghese e cittadino degli eroi dannunziani avevano perduto.
Scegliendo di restare il cantore degli agricoltori e delle lavandare, recupera una sintassi chiara, fatta principalmente di frasi semplici o al più coordinate; recupera un lessico classicheggiante, virgiliano, pieno di latinismi o dialettalismi o, al più, onomatopeico; ha per oggetti l' aratro, le nuvole (cirri di porpora e d'oro), il canto delle lavandare, la marra, oggetti che appartenevano alla stragrande maggioranza degli Italiani, in quel periodo di fine Ottocento e di cui si avvertiva una certa epicità proprio perché erano oggetti destinati ad essere superati dal progresso.
La stessa industrializzazione che bussava alle porte non voleva bastoni o buoi o greggi, ma operai, spolette, treni. Quello dei campi era un mondo al tramonto. Un mondo che parlava di 1800 anni fa, quando per mangiare si seminava, si curavano e si tagliavano le piante alla stessa maniera di come si faceva ai primordi del genere umano.
Quel periodo, la fine dell'Ottocento, invece, segnava l'inizio della fine. Pascoli lo sa (e lo sa anche D'Annunzio, se questi offre la sua poesia ai pastori della Pescara, salvo poi tornare ai romanzi eroico-scandalistici perché hanno un pubblico più ampio e ritorni economici più cospicui).
Che Pascoli scriva Myricae, dunque, è razionalmente plausibile, è l'unica soluzione per salvare quel mondo il quale, umanamente e secolarmente, sarebbe comunque passato, ma poeticamente sarebbe stato eternato dalle sue parole.
Myricae, i vimini con i quali si fabbricano i canestri per la frutta. Myricae sta per "oggetti semplici, contadini, quotidiani", attraverso i quali riassaporare e riappropriarsi di un mondo che è sempre più lontano, perduto e senza ritorno, se non fosse per la poesia.
MYRICAE
Non omnes arbusta iuvant humilesque Myricae, scrive 1800 anni prima di lui Publio Virgilio Marone, autore classico apprezzato nei secoli da parte di grandissimi come Dante, Leopardi e lo stesso Pascoli che lo ama incredibilmente.
Non omnes arbusta iuvant humilesque Myricae, Non a tutti gli arbusti piacciono e le umili tamerici (Bucoliche, libro IV), è posto a motto della raccolta da un Pascoli che si sente diverso dalla moda poetica dell'epoca.
ARANO
Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,
arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra pazïente;
ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s'ode
il suo sottil tintinno come d'oro.
Analisi:
Scritta con un linguaggio semplice e quotidiano (fratte) ma con qua e là tecnicismi propri del settore agricolo (filare, pampano, marra).
L'enjambement fa della poesia un tendere verso, un discorso unico in più versi, un ricadere dell'attenzione sulle parole poste prima e dopo e in rima (filare-fumare; fratte-ribatte)...
Commento:
Poesia dei campi, contadina. Vi è tutta la Romagna di un tempo che è simile a quella di oggi. Vi è una Romagna senza tempo, in definitiva, una Romagna d'inverno, in cui i filari, la nebbia, la prima mattina, rispondono ad un disegno di attesa; non un'attesa inoperosa ma producente, lavorante, nelle grida lente, nel pastore che spinge le vacche e in quello che muove le porche, negli oggetti usati.
Alla descrizione naturale e al quale vivente (umano e animale insieme) vi si sostituisce quello naturale (animale e vegetale insieme) in cui l'uomo scompare, come una parentesi nella storia del mondo e della Terra. Si parla del passero, del moro, del pettirosso...
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((((( Chi scrive, scrive nell'anno del Signore 2012, in Dicembre, quando oramai le statistiche ci dicono che all'agricoltura sono dedicati in pochi, tra i quali pochissimi giovani, e che il nostro è un Paese per lo più industriale! L'antivedere di Pascoli è stato profetico, aveva capito il cambiamento. Quel mondo genuino fatto di sudore, di accontentarsi del pane, di una vita vigorosa nei campi e senza troppi lussi, quella vita spesa ad educare la prole, a gestire giorno per giorno la vita santificando la Domenica festiva e assaporando il tempo e conoscendo la Natura e con essa avendo un rapporto strettissimo di rispetto se non addirittura di amicizia, ha significato per Pascoli avere restituito dignità alle piccole cose e ai piccoli uomini che le usavano -usano. In questa lezione c'è anche un messaggio rivoluzionario - culturalmente rivoluzionario, non nuovo ma impegnativo da capire e da mettere in pratica: l'adesione di Pascoli al mondo rurale e semplice, antico e umile è l'adesione al Cristianesimo)))))
Giovanni Pascoli, il leopardiano antiLeopardi
Giovanni Pascoli è un antiLeopardi. E questo è strano. Pascoli ama Leopardi ma la sua parabola di vita è diversa. Il poeta di Recanati scrive L'Infinito, la poesia che si perde nell'infinità del cielo azzurro oltre le colline; poi cade in un materialismo che diventa universale ad un verso e per l'altro tragico. Ricordo che il poeta scrive l'idillio nel 1819, a ventuno anni.
Il romagnolo, invece, scrive il X Agosto, che è un "Infinito cristiano", pubblicato nella raccolta Myricae, del 1891, quando il poeta aveva 36 anni.
Cosa ci dice che Pascoli, da giovane socialista arrestato per gli scioperi a cui prese parte, è divenuto oramai cristiano?
Prendete il X Agosto. Com'è la rondine uccisa? "come in croce".
Cosa disse infine il padre di Giovanni, Ruggero? "Perdono".
Chi invoca alla fine l'autore? "E tu, Cielo, dall'alto dei mondi...".
Cielo! Con la maiuscola. Non lo dice, non lo chiama Dio ma a Lui pensa.
Dunque Myricae, e soprattutto la poesia X Agosto, dimostrano la grandezza delle piccole cose. Speranza degli umili, degli ultimi, dei poveri. Non è forse Pascoli un povero fortunato? E non è la sua fortuna la grande occasione per tutti i letterati di ritornare ad un sentimento di pace?
Quella che egli sempre cercò?
Così a me pare, con modestia parlando...
Ultimo aggiornamento (Domenica 21 Luglio 2013 14:22)