Un'ora con l'uomo infelice
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In onore di Giacomo Leopardi, in contemporanea all'opera cinematografica di Martone, "Il giovane favoloso", regalo a chi volesse leggerlo un racconto arrivato finalista al concorso Grotte di Gurfa nel 2012.
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UN’ORA CON L’UOMO INFELICE
Napoli, 1836[1]
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uella che vi racconto oggi è una storia incredibile. Quindi, per favore, fate attenzione! Può sembrarvi una favola, può sembrarvi il frutto della fantasia, ma vi assicuro che è una storia accaduta davvero.
Fate finta di volare nel tempo e nello spazio. Napoli, 1836. La città è bellissima e grande si apre come un ventaglio su tutto il golfo. Il Vesuvio lassù, a due passi, giganteggia nero e fosco tra le nubi. Il mercato, al tramonto, ancora pieno dell’eco delle ultime voci dei pescatori che tornavano a casa per cenare. Tra poco sarebbero tornati al lavoro, di notte, a pescare sotto le stelle. Le botteghe erano uno sfregolio di martelli e piastre all’opera. Le madri gettavano urla minacciose contro i figli disgraziati che non volevano ascoltarle.
Qualcuno, di là dal fondo della lunga via, gridava: «’O Re! ‘O Re! Diceno ch’a o’ Re ‘ava passà ‘a chiustu quart … mamma’, vaco a verè ‘o Re! ».
Ed il re passava, con la sua carrozza dorata, seguito da una breve carovana di baroni e nobili di fiducia. La gente migliore del regno, o la peggiore questo dipende dai punti di vista. Ogni tanto metteva la testa fuori, quella testa barbuta e rotonda, oltre la tenda, ma guardava quel suo popolo povero, sporco e lercio con una sorta di malcelato disgusto. D’altronde era solo un ragazzo di ventisei anni, Ferdinando Carlo Maria di Borbone. Era troppo presto per giudicarlo, nel bene e nel male. I Re, si sa, si svelano al momento opportuno.
Il popolo, dal canto suo, metà sbatteva le mani, una parte agitava i capelli in segno di saluto o reverenza e qualcuno di malanimo imprecava con tra le labbra il sorriso sperando che la corona sarebbe caduta di lì a poco. Costoro erano soprattutto quelli del popolo chiamati borghesi, quelli che erano poveri tanto tempo prima ma che, a furia di fare soldi e mantenendo delle aziende di famiglie si erano fatti una posizione interessante. Adesso erano dottori, avvocati, giornalisti e scrittori. Alcuni di questi strizzavano l’occhio ai nobili, ambendo magari riunirsi alle fortune di costoro con il matrimonio di qualche loro figlia, altri, invece, che avevano fatto comunque le scuole, che erano invero istruiti, non vedevano di buon occhio il re borbone e quei ridicoli schiavi al suo fianco, ma speravano che si facesse la rivoluzione, il re fosse cacciato e fosse instaurata la Repubblica.
Repubblica è il contrario di monarchia, vi ricordo. Nella Repubblica non c’è un re che comanda ma può comandare qualsiasi cittadino purché sia scelto dagli altri e governi in nome di tutti.
Insomma, tutta la città era un continuo teatrino di gioia e tristezza.
I ricchi facevano i ricchi. Ed in ciò non avevano paragoni. Nemmeno in Inghilterra od in Francia avevano questa mania per la moda e per i vezzi come a Napoli. Essi, infatti, si preparavano per la cena, poi, la sera, sarebbero andati al Teatro Margherita a vedere qualche commedia, ascoltare qualche lirica, applaudire qualche balletto.
Le donne spettegolavano sulle ultime tresche. Gli uomini parlavano di affari, politica e sport.
In quell’ora anche i giovani figli dei borghesi, quelli della rivoluzione, si ritiravano. Si intrattenevano, infatti, per buona parte del pomeriggio in locali pubblici e quindi, al calare delle tenebre, anch’essi preparavano la serata. In fondo si è giovani ed i giovani hanno come il dovere sacro di divertirsi, ma prima ancora di andare a qualche festa, di fare una passeggiata lungo il mare o di andare a prendersi qualche sbronza, i giovani borghesi fermi al “Caffè Italia”, uno dei caffè più “in” del momento, si sollazzavano quando vedevano che dal tavolino, dove aveva finito di bere il proprio caffè o leccare un cono, si alzava un personaggio strano: era piccolo, magro, con la schiena curva, si reggeva ad un bastone, il naso era importante, gli zigomi marcati, le labbra rinsecchite, i capelli corti e neri. Tutti conoscevano il suo nome ma, nonostante ciò, lo indicavano soltanto come ‘o gobbo oppure ‘o sciangate.
Anche quella sera, con sua abitudine, era fermo al solito tavolino a godere il fresco dell’aria ed il panorama e parlare con quel suo amichetto barbuto e ruspante, un amico dei più, Antonio, detto Totò ‘o mezzafemmene per le sue presunte tendenze omosessuali. Quest’ultimo, però, come per difesa, come abbrutito dalla vita, aveva un carattere burbero e combattivo, cosa che spiazzava, delle volte, i suoi detrattori.
Ed erano detrattori dei due casi umani, dei due buoni a nulla, proprio perché gli abituali frequentatori del Caffè Italia era gente giovane e volitiva, gente nuova, forte, maschia, starei per dire ferrea. Codesti signorotti ventenni dal pizzetto francese curato, dagli atteggiamenti sobri, avevano idee libere ed aperte e conoscevano il mondo; per vero forse più dai libri e dalle fantasie con le quali inventavano storie omeriche di avventure e viaggi che per loro reale esperienza, ma davano per lo meno l’idea di conoscerlo. La natura aveva loro poi donato, oltre che bellezza e salute, anche una naturale propensione alla battuta. Così ogni volta canzonavano la strana coppia, i due relitti della società. «Pare che Iddio bbuone bbuone l’ave accucchiate, ‘e chiu ‘nfame de la religione!» sussurrava uno; «Io nun sacce proprio chi stace peggio e tutt’e due: une sgubbato e sturpiate e l’ate ca’ cerca ‘e mascule!».
E così, se seduti, quelli li traguardavano e li schernivano, essendo l’attrazione principale e il motivo di celia più buffo; se alzati, mentre a fatica passavano tra i clienti seduti, nasceva tutto un vocio sottile. I due erano oramai soliti non far più troppo caso a tutte quelle sceneggiate e manifestazioni di superiorità. Pagato il conto tornavano a casa.
All’inizio quello sano e imponente aveva protestato e stava per menare qualcuno, ma, come se il piccolino, lo storpio comandasse, l’orso non era mai riuscito a far vincere il proprio orgoglio sull’amore per il canarino. Così, adesso, erano indifferenti. Certo, le critiche erano triplicate, ma loro aveva assunto un contegno tale da risultare sereni, almeno in apparenza, a così tanto strepitare intorno.
Quella sera, mentre tornavano a casa, Antonio chiese all’amico: «Ho parlato con Starita, l’editore. Dice che vuole ripubblicare le tue poesie. Non sei contento? Avremo un po’ di soldi. Ce ne servono!». L’altro scosse il capo e pronunciò di parole infarcite di un sobrio e distaccato realismo non so che quantità. Erano nobili decaduti, quasi al limite dell’indigenza e della povertà. Questa nuova edizione di poesie non avrebbe permesso loro che saldare debiti e riuscire a campare ancora un po’. Ma per quanto?
Quell’uomo malconcio si sentiva defraudato di qualcosa, parlava lentamente e con tono angusto e astioso verso la vita. Diceva qualcosa sulla inevitabilità di soggiacere alle leggi perpetue. Poi lo guardava ancora un attimo, distoglieva lo sguardo dai suoi occhi leonini ed osservava ancora Napoli dall’alto, poggiando una mano sulla fronte per schermirsi dai raggi del sole.
«Non a caso qui morì Virgilio!», esclamò. Poi gli chiese di rientrare definitivamente nel portone ed all’appartamento.
Mentre i due rincasavano poco lontano da lì, all’angolo opposto della strada, due uomini parlottavano tra loro.
«Allora, dove mi hai portato?»
«Ti ho portato a vedere la vera ragione per cui siamo venuti a Napoli!»
«Sarebbe anche l’ora!»
L’altro, allora, mostrò col dito lo storpio. Daniele Boccafresca dapprima non voleva crederci. Aveva ipotizzato fosse per il palazzo, poi per alcuni passanti, magari magari per una femmina, una di quelle femmine che a Napoli, nell’Ottocento, ti fanno girare la testa. Chissà, una ballerina. E già fantasticava di accontentarsi di qualche amica di quella.
Quando alla fine capì, digerì il rospo e sentenziò grave: «Come come? Simmo arruate fin a ca’ pe’ vère nu sgubbate?».
«Un gobbo? Ma sai almeno di chi stai parlando?»
«Eh, d’’o gobbe ‘e Notre – Dame! Chille se ne sarà fuiute da Pariggi!».
«Non scherzare! Quell’uomo è il conte di Recanati Giacomo Leopardi. L’autore dei “Canti”, quelle splendide poesie che hanno avuto molto successo in Italia. È il migliore poeta italiano del secolo, forse, chissà, del millennio. “A Silvia”, “Il passero solitario”, “L’infinito” … »
L’altro non voleva crederci. Già le ballerine che gli saltavano in testa, ammiccanti, scomparvero come la polvere quando si passa un panno a detergere un mobile.
«Amico mio, ti ricordo che siamo nel 1836 e che tu mi hai portato a Napoli, con la scusa di spassarcela nei suoi locali ambigui per qualche giorno, per vedere questo Leopardi …».
«Daniele, ti sto parlando del genio del secolo.! Anzi, che dico … Non c’è stato un poeta come lui dacché chiuse gli occhi Dante!».
«Gaudenzio, ma ti sei ammattito? Ho letto, sai, quelle sue celebri poesie. Sono canzoni scopiazzate da Petrarca, da Petrarca dico, vecchie di cinquecento anni. E di che parlano? Di uccellini che cantano nella campagna e di giovani morte di tifo? Questo è il secolo degli eroi, della rivoluzione, del sangue, delle lotte! Questo Leopardi è uno scialbo verseggiatore bucolico che esalta l’ozio e la vita contemplativa. È fuori tempo, sei fuori tempo! Cerca di darti una svegliata!».
«Daniele, aspetta, ragiona. » e mentre quello già si avviava lo inseguiva lo fermava e gli parlava; «Quell’uomo è un fenomeno, è davvero un portento. Ti chiedo solo di parlarci un attimo e te ne accorgerai. Ed è un rivoluzionario, in poesia, certo, ma un rivoluzionario. La sua canzone non è quella petrarchesca, è diversa, è più libera. I versi non sono al servizio della struttura ma del significato. Non è pessimista, è realista e ricollega ad un primordiale stadio di naturalità il concetto di felicità degli uomini. Per lui se l’uomo tornasse ad avere un buon rapporto con la natura la felicità, che oggi gli è preclusa, si dischiuderebbe come i boccioli a primavera.
È più essenziale la vita di quell’uomo che non quella di qualunque uomo sotto il Vesuvio in questo momento. Se tu prendessi le vite di tutti gli uomini della sovraffollata zona vesuviana, tutti quelli di Napoli e delle isole, e le mettessi insieme, di tutto il regno, di tutta Italia e di tutta Europa non faresti l’importanza della vita di questo solo uomo. Credimi. È un’occasione unica!».
«Portare le mie poesie a Poerio è un’occasione unica, ma non a questo ignoto, ignobile, catastrofista, falso profeta, orbo, zoppo e gobbo che tu mi dici. Io me ne vado! Ci vediamo al paese. Buona fortuna!».
«Ma no, dai! Prova almeno … eh va bé, buona fortuna anche a te!» esclamò accompagnando la frase ad un gesto di stizza.
Questo è l’antefatto. Ora vi racconto che, rimasto solo, nemmeno per un istante ho goduto il sole affacciato sul vasto mare, la compagnia della gente, le femmine che passavano e mi facevano liquefare il cuore, senza pensare di incontrare quel grande spirito.
Andai, da buon cattolico, a fare anche qualche Ave Maria al Duomo o fare qualche discorsetto a San Gennaro nella speranza che presto si esaudisse il mio desiderio. Il santo, però, mi accorsi poi, era così impegnato a mantenere in vita gli ultimi, i derelitti, i lazzari, i poveri e le loro famiglie da dieci figli che non poteva avere tempo di pensare al mio piccolo vezzo. A ragione, oggi dico. Che essere il patrono di una città come quella non deve essere mica facile.
Così, mentre percorrevo il tratto sino alla mia camera, capii di dovere chiedere in giro informazioni. A Napoli e in tutto il Regno in genere, quello che non scrivono sulla gazzetta è ciò che conosce solo la gente del luogo.
Saputo, allora, che il grandissimo poeta Giacomo Leopardi era solito passare alcuni pomeriggi al Caffè Italia ivi io mi precipitai. Ero venuto da Capua ed alloggiavo in un misero ostello che per due soldi mi dava una stamberga ed una minestra per acquetare i brontolii dello stomaco al mezzodì. Mio padre era un borghese arricchitosi facendo il gestore delle proprietà di un ricco nobile matusalemme, proprietario di ogni uomo od animale nel giro di cento iugeri dal paese stesso. Da quando, però, aveva scoperto che il suo secondogenito, il sottoscritto, frequentava i circoli giacobini ha pensato subito di epurarmi di casa così che non contaminassi nessun’altro e tenesse alto il nome e il prestigio di fedeltà della famiglia.
Così io, Gaudenzio Nigro, mi sono ritrovato a scribacchiare sulle gazzette pur di guadagnare qualcosa per campare ed inseguire il sogno di scrivere un racconto od una poesia di cui il grande Leopardi potesse dirmi il valore. Certo, così, si capisce diseredato e disadattato, non vivevo proprio grandi momenti. Avevo attirato con me quel mio caro amico perché anch’egli era giacobino e scriveva, proprio come me. Non sapevo come avrebbe preso la mia proposta e, a ben pensarci, potevo anche ante vederlo. Comunque mi decisi a pensare che mi sarei dato da fare, si trattava della mia più grande occasione, in fondo.
Andando al Caffè Italia un giorno non lo trovai, l’altro neppure; naturalmente facevo finta di entrare e guardarmi intorno ma non mi sedevo ai tavoli né prendevo bevanda perché un caffè così è costoso e diventa ancor più salato se ci torni più volte al giorno e più giorni.
Ero deluso e triste. Quasi cominciavo a considerare di non vederlo per molto tempo o di non vederlo mai più se non che il terzo giorno si presentò. L’altro al suo fianco era il fidato Antonio Ranieri. Si mormorava, come detto, fosse omosessuale e della loro relazione di amicizia si dicevano cose poco edificanti e morali; cose che ricordano le carriere degli antichi romani quando avvinazzati si davano ai bagordi più completi. Che questa notizia fosse vera io ho sempre dubitato: in primis, perché due poveretti che si confortano a vicenda non sono per forza omosessuali, in secondo ordine perché la loro unità d’intenti si rifaceva al periodo fiorentino dei due e la loro affinità era artistica, morale e politico-concettuale. Qualcosa di profondamente importante li legava, un sentimento nell’uno, immaginavo, di richiesta di aiuto e di compagnia, nell’altro di ammirazione e orgoglio nel vedere ciò che altri non vedevano, nell’essere l’unico a capire la luce sprigionata dal recanatese. Era la mia stessa emozione. Avrei voluto essere al posto di Ranieri. Poi, come sempre mi capitava dopo un pensiero poco buono e poco cristiano, me ne pentivo. Se io, come lui, vedevo nei versi, nella fantasia e nello spirito del conte un grande animo e un uomo come nessuno, allora potevo soltanto desiderare di conoscerlo per un istante, magari conversare con lui per un’ora.
Per tutto ciò non davo credito a tutte quelle storielle che nascevano sui due, specie quella dell’omosessualità. E non per spregio di coloro che hanno una predisposizione di natura diversa, abbenché mi stia ancora confrontando con il problema della loro contronatura che Dante purga ma che è pur sempre amore di creature di Dio. Io non credo che il peccato sia l’omosessualità, in nessun caso, (se non per questo dubbio predetto) ma che sia la lussuria. Dunque, un omosessuale casto ed un eterosessuale casto sono degni di rispetto perché tali; viceversa, quale sia la persona a cui rivolgi il tuo amore se esso è inficiato dal male e dal rozzo possesso diviene lussuria che è poi peccato. In ciò il mio cristianesimo mi sta ancora molto interrogando, ma, suvvia, non voglio deviare e filosofeggiare e tornerò al racconto.
Io ragionavo di questo, velocemente, mentre li vedevo arrivare. Una schiera di ragazzini li burlava per la via, come se fossero dei pagliacci i cui numeri divertano. Che schifezza! Il poeta più grande d’Italia deriso da quattro ignorantelli, cafoni, analfabeti! Con il beneplacito degli astanti. Puah! Mi vergognai di essere capuano, napoletano, di quel regno e di sognare questa benedetta Italia, nazione che, se pure sarebbe nata, mi faceva paura pensare sarebbe stata diretta dalle stesse persone e lascia a quel punto di barbarie e volgarità.
Li vidi arrivare e il mio istinto di intervenire fu sedato quando vidi il Ranieri costretto, questa volta, a fare la voce grossa contro quella masnada di pesti. Allontanati quelli, passarono per la selva di sguardi noti e consueti, più silenziosi ma anche più pungenti di quegli impettiti omiciattoli e le loro leggiadre malelingue ai tavoli del Caffè. Alla fine sedettero. Il conte sembrava stanco, come inflaccidito, sembrava un pulcino appena uscito dalla pancia della gallina. Alzò per un attimo il volto segnato da una rigidità inconsueta, cercò il raggio di sole, chiusi gli occhi, respirò profondamente, poi trasse un sospiro.
Avrei voluto baciare l’aria che toccava quel fiato. I Canti di quell’uomo mi avevano profondamente colpito, molti ne sapevo a memoria, molti li adoravo per quella pena e quell’infelicità latente di un’anima che, in gioventù, pure si era data al cristianesimo, ad insegnare le dottrine di Cristo nella chiesa di San Vito nel paese natio. E poi, dopo quella sua crisi psicologica o religiosa che fosse, prese a comporre poesie e pagine di prosa piene di rancore, di odio per il mondo, di riflessione filosofica amara e distaccata. Addirittura odiando la vita propinava la morte ed il suicidio. Addirittura dicendo funesta la vita la credette vana e senza senso. E, per ciò, non per quello che esprimeva ma per come lo faceva che amavo i suoi Canti. Quel languore, quel senso di ricerca del vero, che per lui corrispondeva alla fine delle illusioni e degli inganni, e l’apparire dell’infinita vanità del tutto io amavo l’uomo e la sua poesia. E mi ero messo in animo di parlargli. Così, quel giorno, mi feci forza e ruppi gli indugi. Non sapevo se avrei avuto un’altra occasione. Chiamai il cameriere e feci offrire un caffè ai due, appena seduti. Gli raccomandai fretta e lo pregai con delle monete per sé, tanto per predisporlo meglio alla mia preghiera. Ché tutto si ottiene più volentieri, più velocemente e meglio, pagando. Quei soldi erano pane risparmiato alle mie cene, ma ero così contento di stare lì, trasognante, davanti a quei due uomini, gli unici che a me parevano uomini là dentro, che non badai neppure a far conti.
I caffè arrivarono immediatamente, infatti. «Ma noi non abbiamo ancora ordinato» fece Antonio. «Ve li offre quel giovanotto lì seduto» ribatté il vecchio cameriere e mi indicò. La gente, come al solito, era abituata a vedere i due ma non me. Quando, dunque, fui indicato qualcuno osservava la scena incuriosito ma i più si davano ai propri ragionamenti.
Giacomo, allora, fissando verso di me lo sguardo, una volta inteso quel moto di gentilezza, avrebbe voluto chiamarmi; così almeno disse al cameriere, ma Antonio gli suggerì prudenza e mi fece mandare i ringraziamenti. Tutto finì là. Quando il cameriere mi riferì questo, io, imperterrito gli chiesi di consegnare una busta personalmente al signor Leopardi.
Quello, allora, prese la busta e mi fissò. Dato che io non capivo, fece il gesto dei soldi con le dita. Accipicchia, quando il cane è abituato a due ossi non gliene si può dare uno, pensavo tra me e me porgendo altre monetine. È come, questa volta, se sentissi l’odore del pane in bocca. Avevo risparmiato quei soldi per mesi, per arrivare preparato a Napoli all’occasione e mi sembrava una discreta sommetta ma, andando di questo passo, me li sarei giocati tutti in pochissimo tempo. Dovevo tornare a digiunare, a sera, pensavo tra me e me.
Dopo il raccolto l’avaro inserviente speditamente andò e porse la lettera a Giacomo. Ranieri protestò ma, per fortuna, il poeta volle tenerla per sé, la ripose in una tasca e mi ringrazio tramite lo strozzino.
Ne fui felice. Non mi alzai per tutto il tempo che rimasero lì. Non si avvicinarono, però. Quando si avviarono verso casa pregavo che la lettera scritta fosse particolarmente persuasiva e che, in una prossima occasione, mi avrebbe parlato.
Peregrinavo, intanto, per la città. Tutto un degrado sembrava, un’immensa discarica a cielo aperto, un letamaio. Le zone dei poveri avevano celle di api, non case, una più lurida e scalcinata dell’altra, una sull’altra. Le vie non erano né tranquille, perché sentivi frequentemente gridare da un palazzo all’altro, da un angolo all’altro, né sicure, perché gli scippi e le vessazioni erano all’ordine del minuto e tutto alla luce del sole. Li chiamavano lazzari, questi guappi qui; gente che, alla sola vista, t’avrebbe fatto scappare in preda al terrore più folle, neppure avessi visto un fantasma, e che se ti prendevano di mira potevano rubarti denari ogni giorno, in qualunque luogo della città tu mettessi piede; finanche se tu procedevi al posto del capo delle guardie del Re non potevi stare attento. I reali stessi diffidavano di quel popolo così avido e povero da essere capace di tutto.
Però la bellezza della città risaltava tra il bianco delle nuvolette leggere, e quell’acqua scintillante dava all’animo una sete di infinito e di conoscenza. I pescatori o gli avventurieri come Ulisse o Colombo ben lo sapevano. Distinguevo anche diversi palazzi nobili, passando per il corso, il Mastio Angioino, ora usato dai Borbone loro eredi, i teatri, le facciate, gli sfarzi, le carrozze. Il centro, sì, era molto più incivilito rispetto alla periferia dove mi trovavo poche ore prima. Non a caso Napoli era una città di livello europeo, la città più popolata d’Italia, quella più assolata. Vi vivevano letterati e scienziati di fama, l’università era prestigiosa, il teatro San Carlo ospitava il meglio della commedia e della lirica del tempo. I facoltosi e benestanti turisti non mancavano. Però era anche la città meno libera, meno liberale e meno pronta alla rivoluzione. Le ultime notizie di sommosse, da queste parti, appartengono a Masaniello e la sua fine fu un monito per tutti, per secoli. Qualcosa fu tentato durante la rivoluzione, ma l’esito non corrispose alla volontà e al sacrificio di alcuni importanti esponenti liberali. Sarebbe mai cambiata Napoli? E l’Italia? Il sacrificio di giovani vite avrebbe piegato questa millenaria apatia del popolo e questo sodalizio a cui vedevo partecipare nobili, parte di borghesi, re e, ahimè, Chiesa cattolica?
Ed io, sconfessato da mio padre e sconfessato dalla mia religione, quasi scomunicato da tutto il mio mondo, dalla mia parte, avrei trovato mai pace? Un ruolo concreto nella società? Volevo cambiare le cose scrivendo, ci sarei mai riuscito?
La vita è porsi domande e cercare di rispondere ad esse!
Il sole diventava cocente, il cielo più fino e tutto più realizzabile quanto più ero triste. Che strano!
Intanto passò del tempo. Così, se non potevo vedere Leopardi, presi contatto con ambienti liberali della capitale. Lì riafferrai la mia speranza che andava cadendo. Incontrai un sacco di borghesi, giovani al mio pari, volenterosi di fare la rivoluzione, ma se tutti erano ispirati dai valori di poeti come Foscolo o Manzoni o da politici come Mazzini e generali come Garibaldi, io ero, praticamente, il solo di tanti a parlare dell’Ode all’Italia e di quel grido accorato di un giovane verseggiatore marchigiano che voleva dare la propria vita per l’unità della nazione al pari di Simonide, cantore dell’impresa di Leonida al passo delle Termopoli.
Tutti mi dicevano, in quelle sere, che Leopardi era soltanto uno storpio che parlava di morire per la patria perché non era capace di sollevare nemmeno il fucile per rivolgere l’arma contro sé stesso. Ne sentii di cattiverie contro il grande genio e da parte mia lo difesi strenuamente. Preferivo creare inimicizie piuttosto che tradirlo! Nulla valse! Quando l’ignorante maggioranza di popolo grida di liberare Barabba …
Però, pensavo, erano passati dieci giorni ed al Caffè i due amici non giungevano più. Che la mia lettera l’abbia provocato?
Dieci giorni prima, appena rientrato in casa, Giacomo Leopardi aprì la lettera. Ranieri era al suo fianco, e il poeta lo rimproverò persino poiché non aveva voluto conoscere l’unico individuo che aveva mostrato compassione per loro.
«Sicuramente in questa lettera ci deriderà, come gli altri!» protestò il napoletano; così, l’altro se ne fece quasi capace.
L’aprì, comunque e, armato di lucernario e di spessi occhiali da vista, si affannava nel tentativo di leggerla. Era una lettera scritta a caratteri grandi e non troppo lunga, dacché da suo estimatore sapevo della sua malattia agli occhi. In essa mi presentavo come un suo ammiratore, dicevo di conoscere le sue poesie a memoria e gliene inviavo una per avere un suo giudizio ed in più tre fogli con un mio “Nuovo dialogo tra Porfirio e Plotino” dove, questa volta il secondo faceva ragionare meglio il primo sull’opportunità e la verità di definire la vita vana ed infelice.
Non saranno piaciute né la poesia né la mia prosa filosofica, pensavo sconsolato ogni notte che passavo a guardare le stelle dalla finestra rotta del mio alloggio.
Comunque, in cuor mio, una decisione la presi. Di restare a Napoli. I liberali, anche se non mi trovavo con loro per i miei gusti letterari, pure avevano apprezzato la mia preparazione ed il mio carattere stoico, pronto ad ogni azione, intrepido e volenteroso. Così mi inserirono negli ambienti di lavoro delle gazzette locali di loro ispirazione, sovvenzionate da alcuni di loro più facoltosi.
Intanto era appena stata pubblicata la terza edizione delle Operette morali del genio presso i tipi di Starita. La censura borbonica requisì le copie, però, intuendo che potevano essere fonte di riprovazione politica o in disarmonia con la fede cattolica, maggiore alleata dei reali. Io feci appena a tempo a comprarne una. Il resto del tempo lo passai tra i miei nuovi amici a farli rendere capaci di come, se la polizia borbonica le aveva ritenute pericolose, quelle poesie erano barili di esplosivo rivoluzionario. Alcuni, lentamente, dovettero pure ammettere che così fosse. E io me ne rallegrai.
E così passarono dei mesi tra complotti, riunioni, articoli di giornale improntati ad un velato moderatismo riformista che invocava un rinnovamento politico che fondesse Monarchia e Repubblica, ma che nei fatti proponeva quest’ultima come modello di vita libera, vera, sociale, utile, eccetera eccetera.
Passarono mesi, a volte Leopardi continuava a frequentare il Caffè ma sempre più di rado. Non riceveva praticamente nessuno. Molti lo attaccavano per strada, oramai. E sulle pagine dei giornali tanti articolisti gettavano discredito sulla sua persona e sulla sua opera. Un giorno lessi l’articolo di Emidio Cappelli, arrogante, avido e perfido uomo che ebbi la sfortuna di conoscere e che si potrebbe paragonare, a mio giudizio, letterariamente e umanamente parlando, a quello scroccone che sulla Via Sacra rovina la giornata ad Orazio.
E vi è il poeta Poerio, che, io penso, per invidia ne diceva male. Leggendo un suo articolo mi ricordavo di Daniele. Chissà se aveva veramente consegnato qualche sua rima a costui?
Io non amavo nessuno di questi poeti ufficiali, quelli invisi o graditi al regime. Erano troppo falsi per risultare veri. Troppo stereotipati, scrivevano frasi ad effetto per solleticare l’appetito dei tanti piuttosto che centrare gli argomenti cardinali sui quali impostare un progetto di governabilità. E poi era una poesia vecchia, laida, brulla, stentorea e fredda. Non viva né ardente, né vera, né critica, né indagatrice, né logica, né persuasiva, né elegante, né rivoluzionaria come quella leopardiana.
Quell’esercito così numeroso, allora, di coloro che parlavano male di Leopardi, io abbracciavo con un mite sentimento di pietà. Basti dire che gli invidiosi a Napoli sono la totalità degli abitanti e che la differenza la fa soltanto il grado in cui esso popolo è caduto in questo vizio e non il merito del se l’abbiano o meno fatto. Chi più chi meno tutti sono così. E con questo come tanti altri vizi. Il popolo napoletano è pieno di mancanze e di debolezze.
Passarono mesi e intanto si unì a tutta la mia attività la novità degli appuntamenti con Marietta, una giovane ragazza che avevo conosciuto e di cui mi ero innamorato subito. Le feci la corte per un mese, poi, una volta, accettando l’invito ad uscire con me un pomeriggio, la baciai di nascosto. Eravamo sopra la collina che domina il golfo, quella dove vanno gli innamorati a giurarsi amore eterno. Lì ella mi baciò e da quel giorno fummo segretamente fidanzati. Segretamente dico perché era la figlia di un noto personaggio politico napoletano dell’ambiente liberale. Egli, però, non avrebbe mai approvato la nostra relazione perché ebbe con me alcuni diverbi in materia politica tanto da risultargli, io, alquanto inviso. Se avesse saputo che prima di tale battibecco, quando mi presentò sua figlia, io e lei ci fossimo innamorati, ci avrebbe sepolti di pallottole prima; sia a me che a lei, probabilmente.
Seppi che il recanatese era, ora, ospite a villa Ferrigni, alle falde del Vesuvio. Nulla speranza, però, mantenevo di incontrarlo. Era sempre più schivo.
Non lui ma il caso volle che incontrassi Ranieri. Era lì all’angolo della via con altre due persone. Giacomo non era di loro. Andavano a passo svelto. Fu un istante quello in cui mi decisi. Li raggiunsi e chiamai: «Signor Ranieri, signor Ranieri! Aspettate, vi prego!».
Aveva un pantano lungo, era Gennaio, faceva un discreto freddo ed il vento spirava dal mare con un forte odore di vastità interminabili e sconosciute.
«Sono Gaudenzio Nigro, sono un giornalista. Vorrei chiederle di incontrare il conte Giacomo Leopardi. Vorrei da lui dei ragguagli, circola voce che voglia abbandonare la città e tutti si domandano se questa notizia sia vera o priva di fondamento. Vorrei sapere cosa ne pensa delle critiche ricevute da letterati come Tommaseo, Poerio e tanti altri. Insomma, vorrei porre alcune domande di letteratura al poeta intorno al suo usus scribendi …» affermai per dare un tono dignitoso al mio discorso.
La sua barba cespugliosa, lattea e lunga, nascondeva la rabbia del napoletano per Napoli, per gli atteggiamenti della sua città verso di sé, anche se le aveva condotto un genio italiano di rara bravura, e verso il suo amico, che meritava ben altro trattamento.
Mi guardarono occhi nerissimi, in cagnesco, producendo scintille di ritrosia miste ad odio e rancore.
«Non riceve nessuno!» mi replicò, baritono.
«Ma io voglio soltanto …»
«Si scansi, le ho detto che non riceve nessuno» disse burberamente andandosene e trascinando con sé gli altri due, muti nella circostanza. Erano ben vestiti come tutti ma quei profili e quei lineamenti non erano comuni a tutti i ben vestiti della città e così li riconobbi nelle persone del conte di Fontanachiara e del barone Marsilio Antimio Saverio di Coscialunga. Conservatori e rigidissimi difensori dello status quo. Per fortuna li avevo sin da subito ricordati, perciò mi mantenni vago nella mia richiesta di incontro. I nobili erano sfingi, non mostravano emozione, seguirono compassati quel nostro dialogo come avrebbero seguito il battesimo di un loro figlio, l’incoronazione di un re o la sua decapitazione.
Già tutti mi avevano volto le spalle quando io, stretti i pugni ed implorando in me una grazia del cielo, cominciai a declamare:
«All’Italia, Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, Ad Angelo Mai, quand’ebbe ritrovato i libri di Cicerone della Repubblica, Nelle nozze della sorella Paolina …»
Rallentarono allora quelli. Io proseguii elencando tutti i titoli dei Canti di Leopardi ad uno ad uno. Avevo poi iniziato a ricordare, in ordine, anche i titoli delle Operette morali. Ad un certo punto si fermò l’uomo di centro, il forzuto Ranieri, parlamentò con i suoi vicini e, evidentemente colpito, si voltò. Io, fissandolo negli occhi, proseguii: «D’in su la vetta della torre antica, / passero solitario, alla campagna vai/ …».
E continuavo a recitare, quando quello alzò la mano e mi fermai. Rifece due passi verso di me: «Vedo che conoscete i Canti del poeta».
«Tutti, a memoria».
«E cosa vi lega al mio amico di un’ammirazione così profonda?», disse, «Seppure di ammirazione e non di scherno io debba parlare!».
«Considero il conte Leopardi il più grande poeta italiano, signor Ranieri. Sin da ragazzino. Oggi ho venticinque anni e sapendo che egli viveva a Napoli sono venuto qui per parlargli e testimoniargli la mia stima e per fargli leggere alcune mie canzoni.».
«E di dove sareste?».
«Di dove gli ozi salvarono Roma dal terribile Annibale!».
«Ah, Capua! Conosco!»
«Signor Ranieri, vi prego. Facciate in modo che io conosca il poeta. È un mio grande desiderio! Non vi implora un uomo bensì la sua anima!».
Rifletté un po’ quello, come se volesse tenermi sulle spine. Poi mi diede appuntamento per il pomeriggio alla villa. Io affermai, con quel solare sorriso che mi era spuntato sulla faccia, che sarei stato puntuale e lo ringraziai di cuore.
Non potevo crederci: avrei visto Giacomo Leopardi! Mi sembrava di impazzire di gioia, mi pareva che non avrei retto tanta la felicità. Giacomo Leopardi il più grande poeta d’Italia, il dolce rimatore di canzoni nuove nello spirito e nel metro. Il genio così giovane da far tremare nelle vene chiunque al pensiero di cos’altro mai avrebbe scritto …
Il pomeriggio arrivai con mezz’ora di anticipo, così da non farmi trovare impreparato. All’ora prestabilita suonai. All’inizio non sentii nessuna risposta. Poi, fortunatamente, dei servi mi aprirono e mi fecero entrare. La villa non era affatto modesta ma di tutto rispetto. In un’anticamera io aspettai di essere ricevuto. Il Vesuvio, dalla finestra, era il bubbone sulla faccia di un anziano. Tutto venoso, silente, sembrava un cannone pronto a sparare. Il cannone della Rivoluzione, come si diceva tra noi al circolo. Per la caduta della monarchia e la festa dell’instaurazione della Repubblica!, già, ma chissà quando, pensavo tra me e me, nell’attesa.
Nel frattempo entrò in sala Ranieri, mi salutò e mi fece accomodare.
Parlammo pochi minuti. Poi mi introdusse in un lungo corridoio fregiato di quadri, pitture e statue di marmo lungo tutto il cammino, si fermò, bussò alla porta ed entrammo. La luce fioca nella stanza era attenuata dalle tende alle finestre.
«Giacomo, ecco il tuo giovane ammiratore! Dice di sapere tutti i tuoi canti a memoria.»
«Deve avere una buona memoria, signore, dacché ho scritto abbastanza!».
Neppure capii bene la domanda. Lo scrutavo estasiato ed immobile. Il cuore mi si fece pesante e quasi sentivo raggelarmi il sangue. Non ero capace di muovermi verso di lui. Sarei corso ai suoi piedi. Giacomo Leopardi innanzi a me! Ah, finalmente! Un sogno!
Il poeta aveva i capelli disordinati, ben vestito con una giacchetta scura di lana ed un cravattino al collo sotto al quale spiccava una camicia linda. Sempre curvato sulla sedia, frutto evidentemente degli studi leggiadri e le sudate carte, così come mi immaginavo di trovarlo. L’espressione crucciata di quando lo vidi al Caffè era, nell’intimità della casa, resa rilassata e pacifica e comunque più stanca che severa.
«Mi chiamo Gaudenzio Nigro, sono di Capua, signor conte. » introdussi. Allora egli mi guardò, nella penombra, e mi rivolse queste parole amare: «Signor Nigro, signor Nigro, neppure mio padre più mi chiama conte. Non sentivo a me rivolto questo sciagurato nome da sciacalli da non so più che tempo! Sia gentile, mi chiami signor Leopardi!».
Il mio nome furono le prime parole che io sentii pronunziare dal mio mito. Quella voce di usignolo, leggera, malaticcia, flebile e bassa, mi entrò nel cuore immediatamente.
« Lo farò, signor Leopardi ma, vi prego, non scambiate l’amore per voi per adulazione. Sono un giornalista ed un vostro grande estimatore. Per me voi siete il poeta italiano più sommo dai tempi di Dante.».
Mi ero ripromesso di mettere da parte la mia inadeguatezza in simili situazioni, quando mi irrigidivo e mi bloccavo nel conversare con qualcuno di così chiara fama. Eppure quell’incontro era per me fatidico. Chissà se avrei avuto un’altra occasione simile. I miei occhi erano fissi sulla sua figura. Avevo provato allo specchio, a casa, per circa due ore, come sedermi, come muovermi, che espressione fare. Non era certo finzione, no. Il mio cuore si preparava a quell’appuntamento come un bonapartista che incontri il suo Napoleone o come un cesariano il suo Cesare. È l’amore di un piccolo verso il suo grande esempio. È un amore amicale, devoto, fedele e sincero. Chi ama potrà capirmi, chi non sa farlo no! Mi sentivo completamente responsabile di ogni ruga che si fosse contorta o di ogni gesto che avrebbe potuto risultare intollerabile agli occhi del grande.
«Oh, oh, signor Nigro. Non mi dica, addirittura. Ella è un giornalista, eppure tra i giornalisti il mio nome è evocato accanto agli epiteti peggiori e più bassi. Ella, dunque, non so dir se finga o se sia un pezzo unico nella loro artiglieria.».
«Oh vi prego, credetemi. Io da sempre vi considero il più grande poeta italiano esistente, signore. Dovete credermi, sono emozionato. Io da ragazzo, leggevo i vostri Canti e ne restavo stupefatto. Il vostro valore è immenso ed un giorno verrà riconosciuto, ne sono sicuro!».
Chiese, allora, che ci sedessimo.
«Ho perduto l’amore per la gloria tantissimo tempo fa, lo scriva questo, lo scriva pure, signor Nigro, sul suo giornale! Né le mie poesie hanno suscitato quel che io mi sognavo avrebbero suscitato. Poco male! Ciò che mi ferisce di più, però, è il non essere capito, essere stato frainteso … ».
«Condivido, signore. Voi siete stato frainteso e nessuno è riuscito a capire la vostra grandezza, ma io, con modestia, sì. I vostri scritti sono filosofia e metrica insieme, sono l’insieme della vostra indagine sull’uomo e sulla vita umana,».
«E quale delle mie poesie, signor Nigro, le aggrada di più?» domandò, allora, incuriosito.
«Sempre caro mi fu quest’ermo colle/ e questa siepe che da tanta parte/ dell’ultimo orizzonte il guardo esclude» fulmineo recitai. «Trovo che in essa poesia abbiate trovato quello che cercavate!».
«Appartiene essa al mio passato, signore! E il passato è morto. Cosa intende dire, però, con ciò; non ho forse trovato ciò che cercavo in ben altre opere? Ella è, dunque, come sospettavo, un ammiratore se non falso parziale?».
«Oh, nient’affatto! Crediate: intendevo dire che nell’Infinito, signore, ha trovato quel qualcosa che cercava. Nelle altre, in tutte le altre, non ha più cercato ciò che cercava nell’Infinito. Quella poesia mancava solo di un nome ma io so che era ben troppo esplicito in voi.».
«Ecco, dunque, signor Nigro che voi svelate la vostra vera natura ed il discorso comincia a seccarmi.».
«Eppure tonava alto sulle vostre labbra ardenti di giovane, nella chiesa di san Vito a Recanati, quel nome: Gesù Cristo! Come è possibile che il mondo vi abbia vinto? Voi che siete il più alto dei poeti italiani?»
«Antonio, hai sentito?» chiamava in soccorso.
«Ho sentito, Giacomo. E disapprovo questo giovane. Se ritieni il discorso finito dillo pure.».
«No, lascia che spieghi a questo nostro giovane ospite impertinente che Cristo è un’immaginazione, forse una figura più leggendaria che reale. Tonava alto il suo nome sulle mie ardenti labbra, avete detto? Ebbene sì, quando io credevo ai sogni, prima di trovare la lapidazione del mondo, la sconfitta della mia poesia, l’ingiuria per me e la verità a cui ero giunto. La verità che propugno perché è tanto scomoda da farmi apparire un mostro? Dite! Sono io un mostro? Dite! Ne ho sentite a Recanati, Roma, Pisa, Firenze e qui. Ne ho sentite di cose sul mio conto. E perché tanto odio? Perché portavo il vero, mentre il mondo preferisce il bello. È bello pensare di non morire, di risuscitare, ma non ti accorgi, ragazzo, che è una scusa per poveri e miseri, una scusa per non vivere? E quei cristiani che mi hanno sempre maltrattato, che hanno mugugnato contro di me, che messaggio hanno diffuso nel mondo? La falsità del messaggio cristiano. E tu, a ben vederti, sei uno di loro. Un cristiano, magari liberale, che è venuto a prendersi gioco di noi?».
«Sì, lo ammetto. Io sono venuto qui prima come cristiano e poi come poeta, ma non sono uno di quei cristiani che vi ha trattato male. Essi usurpano un nome non loro. Anche Dante non era come tutti ma era un cristiano vero ed autentico in contrasto col Papa e coi cristiani così detti. Anch’egli bisticciò con il papato e non era d’accordo con le persone del suo tempo. Così io. Io deploro coloro che vi attaccano, specie se essi lo fanno nel nome di Cristo. Cristo è amore. Me lo avete insegnato voi … voi nell’Infinito! E vi voglio dire anche che le altre poesie sono eccelse perché mettono in azione il vostro cuore ma anche perché in esse languisce la presenza di un amato, di un amore, di qualcosa che ci trascenda. Una poesia di cuore, sincera, qui in Italia non si scriveva da secoli. Voi avete resuscitato il genio della poesia italiana. Mi creda!» dicevo confuso dall’emozione. Solo appena finii di parlare mi accorsi che mi ero rivolto al poeta prima con il lei e poi con il voi. Poi non so come mai mi uscì di aggiungere: «Credimi, Giacomo!».
Ranieri, finora sottilmente divertito da quel dialogo drammatico, si produsse in una smorfia ironica a quel punto. Leopardi si pose una mano sulla testa ed abbassò il capo.
«Gli uomini sono per natura malvagi e cattivi. Guardati da loro. Chi ti chiama fratello ti ucciderà e chi mangia alla tua mensa si prenderà ciò che è tuo. E il Natale appena passato e la Pasqua che arriva sono solo feste pagane alle quali si è dato un nome cristiano! Lo studierai un giorno …».
«Voi giudicate i cristiani e non il cristianesimo. Facciamo conto, signore, che voi andiate a teatro a vedere una commedia. Vi si rappresenta per la prima volta la Mirra. Facciamo caso che l’attore scordi delle parole, si inceppi, caschi la scenografia. Voi cosa penserete di quella commedia?».
«Che è pessima!».
«Facciamo conto che quella stessa sera, quella stessa commedia sia interpretata dal più bravo al mondo tra gli attori di teatro. Che dia intonazione, sentimento, espressione e anima a ciò che è lassù a rappresentare. Cosa direste voi, signore? ».
«Plaudirei ad un’ottima commedia. ».
«Perfetto! Allora, vedete, signore? Voi avete giudicato la commedia prima pessima poi ottima ma in realtà la commedia è la stessa. Dunque, essa per voi è pessima o ottima? ».
«Dipende da chi la interpreta!». intervenne Ranieri.
«Bene! » dissi a quello e, rivoltandomi verso il recanatese, proseguii: «Allora voi in realtà non avete giudicato la commedia ma l’attore, l’interprete che se bravo e fedele al testo la risalta, sennò la abbassa. La commedia è il Vangelo …».
Antonio Ranieri, poggiandomi una mano sulla spalla mi disse, a quel punto, che quelle parole erano come bestemmie in quella casa e per loro due.
Leopardi, però, dopo un attimo di silenzio, inaspettatamente disse:«Lascia che finisca …».
Me ne rallegrai, senza darlo troppo a vedere. Così, ripreso lo stame dei pensieri, continuai nel ragionamento: «Si legga il Vangelo, bene e attentamente come avete fatto voi. Io sono sicuro, signore, che nemmeno i curati e i papi abbiano letto così tanto e bene la Bibbia come voi al vostro tempo. Dunque, si leggano le Sacre Scritture e si dicano vere o false, giuste o errate. Si comprendano!
Poi, si giudichi ogni attore, nei secoli precedenti e in questi tempi fino ai tempi che verranno …
L’idea è pura. Il Cristianesimo è puro, come pensiero. Non il cattolicesimo del papa e neppure le eresie o le chiese protestanti, seppure per certi versi migliori della nostra. Il Vangelo è il centro del cristiano. Era il vostro centro quando avete scritto l’Infinito! ».
A quel punto mi tacqui. Il poeta ci lasciò tutti in un interminabile ed assorto minuto di quiete. Poi, sospirando, disse: «Guardati dalla natura, ragazzo, più che dagli dèi che non esistono. Proteggiti dal male della natura, dal male che uccide gli uomini e li rende quali sono. Vani lottatori contro potenze imponenti. Guarda l’epidemia di collera da poco scoppiata. Essa decimerà Napoli e noi cosa abbiamo contro essa? Sciocche preghiere?».
Ranieri era felice di quella risposta. Io no.
«Qualcosa in più. La fede di conoscere qualcosa di talmente immenso che si può solo avvertirlo! Voi lo avete avvertito nell’Infinito, io lo avvertii in voi! Anche voi siete schernito e maltrattato come Cristo! Non vi sembra la vostra una parabola vicina a quella del Maestro?».
Così, come liete al mio orecchio giunto il mio nome pronunciato da cotanto uomo e cotanto spirito, così l’ultimo vocativo, quello del commiato, mi distrusse.
«Sono stanco! Arrivederci, signor Nigro!» chiosò.
Stetti un attimo lì, come a volere assaporare l’ultimo istante, per confinarlo alla memoria e rinchiuderlo nello scrigno dei momenti più belli della mia esistenza.
Poi mi alzai e raggiunsi a passi lenti la porta, riguardandolo. Esclamai, dunque: «Io so cosa hai visto dietro la siepe, Giacomo. Ricordalo! L’amore è una forza molto potente!».
«Paura, violenza, cattiveria e morte sono le uniche potenze che conosco. L’amore non l’ho mai provato!».
«Non è colpa tua. Non sono stato capace io di dimostrartelo. Addio!».
«Arrivederci!».
Ranieri si alzò per condurmi alla porta. Facemmo il corridoio in silenzio. Giunti che fummo io lo ringraziai stringatamente porgendogli una robusta stretta di mano che egli mi contraccambiò.
Qui finisce la storia scritta di proprio pugno da Gaudenzio Nigro.
Ora, il sottoscritto, amico del capuano, ne finisce la descrizione.
Nei mesi successivi il colera infestò la città.
Giacomo Leopardi, che stava ultimando la sua poesia da inserire nei Canti, “Il tramonto della luna”, da qualche giorno della fine di quella primavera era a letto, malato. Non si sapeva la degenza a cosa avrebbe portato. Si sospettava il peggio. La notte del 13 giugno era particolarmente drammatica. Sudava. Antonio era, come sempre, al suo fianco. «Tranquillo. Passerà. È un male passeggero. Passerà.» fingeva di sapere, ma nell’altra camera il dottore aveva appena scrollato la testa.
«Passerò io, Antonio! Che giorno è oggi?».
«Il 13 giugno. Tra due giorni compirai trentanove anni».
«Il giorno di Sant’Antonio! Che beffa!».
«Di che beffa parli?».
«Morire il giorno del tuo onomastico.».
«Non morirai, che dici? Stai tranquillo!».
«Voglio che prendi un appunto. Sulla scrivania c’è un foglio con su l’ultima poesia “Il tramonto della luna”. Prendila!».
L’altro eseguì poi tornò vicino al letto. Gliela lesse su sua richiesta. Il poeta tacque. Iniziò l’agonia che fu lenta. A volte parlava, a volte taceva per diverso tempo.
Era l’una di notte quando, guardando la luna che tramontava laggiù dalla finestra lontana, si riscosse dal torpore. Svegliò Ranieri che dormiva al suo fianco. «Antonio, Antonio» disse e l’altro, suo malgrado, si destò dal sonno scomposto su quella vecchia sedia.
«Scrivi, presto, cancella tutto quelle rime di oggi. Scrivi! “ed alla notte …”» sibilò.
Il partenopeo era lì di fianco, disperato. Non aveva neppure capito le ultime parole dell’amico con cui aveva passato tanti anni. Sapeva, in cuor suo, delle sue condizioni. «Cosa hai detto? Giacomo, cosa hai detto?»
«Antonio, ti prego, scrivi. Continua la poesia. Nello stesso ultimo verso scrivi:» e quello con mestizia, sentendo la solennità di ciò che lo vedeva protagonista, scrivere gli ultimi versi dell’ultimo canto di un tale morente, prese lo stilo ed alacremente, mentre la voce dell’altro diventava un soffio leggero come il vento che spira a Napoli talvolta quando l’estate è vicina, scrisse: «Ed alla notte …» proferì di nuovo, come se stesse trovando le ultime parole da lasciare all’ingratitudine del mondo tra l’agonia ed il presentimento della morte.
Subito si diede da fare, dicendo: «Continuo il verso, allora. Qui dicevi “vedova è insino al fine;” ora scrivo “ed alla notte”».
«che l’altre etadi oscura,
segno poser gli Dei la sepoltura.».
«gli Dei?».
«gli Dei … ti prego, scrivi!».
Scrisse. Perché gli Dei? Che cosa centrano? Pensava che forse i ragionamenti di quel ragazzaccio potevano averlo indotto a cedere un po’. Cosa significava quell’ultimo verso? Comunque scrisse. Perché lo doveva ad un amico in fin di vita. Infatti, un attimo dopo, il moribondo fece un grande sospiro e cominciò ad affettare il respiro. Già non parlava fluidamente ma adesso, d’un tratto, sembrava aggravarsi. Passò due ore così. Era straziante vederlo. Sudava. Antonio continuava a dirgli che ce l’avrebbe fatta.
Alle quattro del mattino Giacomo Leopardi spirò.
Antonio pianse lacrime amare, andò alla finestra a vedere quella notte bastarda che si prendeva il suo amico, quello che anche per lui era il più grande poeta italiano degli ultimi tempi. Pensò e pianse.
La notizia della morte di Leopardi rimbalzò distrattamente in città. Il colera raccoglieva le preoccupazioni dei partenopei. Sembrava un flagello di Dio. I più malevoli dicevano mandato perché la città aveva ospitato degli atei come il poeta di Recanati e i peccatori contro natura come Ranieri.
Appena lo seppe Gaudenzio pianse a dirotto, incredulo. Anch’egli era costretto a letto, anch’egli per il colera. È difficile, però, in effetti dire cosa l’abbia ucciso prima, se la malattia o la notizia della morte del suo mito letterario.
Gaudenzio Nigri morì il 15 giugno 1837, due giorni dopo il genio del poeta, nel giorno che sarebbe stato del trentanovesimo genetliaco che il marchigiano non fece in tempo a festeggiare; come se il destino li avesse voluti riunire morì proprio quel giorno. Prima di morire pronunciò il verso: «“e ‘l naufragar m’è dolce in questo mare”- e aggiunse - Amen!».
Ranieri fece in modo che le spoglie di Leopardi non fossero gettate nella fossa comune, come per legge, ma fossero tumulate nella chiesa di San Vitale, vicino alla tomba di Virgilio, l’amato Virgilio.
L’ignoto Gaudenzio Nigro ebbe una parabola diversa. Fu sepolto nelle fosse comuni e di lui, dei suoi sogni, dei suoi scritti, non se ne seppe nulla e nulla se ne sarebbe saputo se io, trovando questo manoscritto, non lo avessi pubblicato e arricchito.
È anche questo Risorgimento, il nostro amato Risorgimento, anche nelle sconfitte, anche nell’incomprensione, anche nel desiderio nato in autunno e che anelava la lontana primavera.
[1] Finalista al Premio Grotte di Gurfa, 6 Ottobre 2012
Ultimo aggiornamento (Martedì 08 Settembre 2015 20:18)