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Il sole sanguina fra gli ulivi - Primo capitolo


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PRIMO CAPITOLO DEL ROMANZO

Il quarto abbraccio

α

Narrare questa storia significa raccontarne tante altre.

E scoprirete che la vita di ogni uomo ha delle angosce da sconfiggere, soprattutto per chi ha il potere di decidere il destino di tutto e di tutti.

Per ragioni di prudenza, vergo da anonimo queste pagine dense di segreti da non toccare e verità da non svelare. Altrimenti non potrei permettermi troppa libertà.

Nell’anno 1056 dalla fondazione di Roma, un uomo è al comando del più grande impero di tutti i tempi, figlio ed erede del sogno di Alessandro Magno.

Non più come tanti anni prima, tuttavia il nome di Giove e degli dèi è venerato e temuto, i loro templi ricevono generose offerte e frequenti visite da parte dei tanti pellegrini da ogni angolo della terra. Gli atenei pullulano di alunni, nelle palestre si allenano gli atleti e gli esercizi ginnici danno sprone al buon umore. Nelle vie il popolo mormora, come sempre, nelle terme i patrizi alternano il vino e le donne alla politica.

Non è una gran vita, come si potrebbe pensare; è un falso stato di grazia per non pensare alla miseria, all’inflazione, alla delinquenza, alla minaccia di rivolte e ribellioni.

Il saggio imperatore, allora, chiede aiuto. La salvezza di tutti è nell’aiuto di tutti.

L’impero è diviso tra quattro imperatori che lo reggono con imparzialità e scrupolo, anche se uno di loro, Galerio, crede fermamente che il nemico pubblico di Roma sia una setta di maghi che vorrebbe condannare i Romani alla caduta. Per questo ha attraversato la Macedonia e la Tracia, per cercare di persuadere il più anziano degli imperatori a rovesciare la bollente pece della repressione su costoro.

«Dobbiamo eliminare questi cospiratori!» dichiara, accennando all’atto con il pugno destro che sbatte sul palmo della sua mano sinistra.

«Per Giove, Galerio!» gli ribatte l’imperatore degli imperatori. «Ieri li abbiamo colpiti nei loro luoghi di riunione, oggi ho firmato l’editto che ne limita la libertà! Questi cospiratori, come li chiami tu, non sono il nostro pericolo più grande. Anzi, non ti nascondo che non sono nemmeno un pericolo. Si tratta di straccioni e delinquenti da strada…».

L’altro è scettico, ma deve ingoiare quella decisione. Dopo qualche altra ora insieme i due si salutano: Galerio deve tornare nei territori da lui controllati, nell’Illiria. La sua flotta è imponente e corre veloce nel lontano infinito della pianura d’acqua, verso l’Egeo.

Il giorno, intanto, cammina spedito. Il sole irradia il cielo azzurro e l’ecumene umana: Anastasio lo osserva sereno da Byzantium, io lo addito ai miei alunni da Ippona, ne gusta il sapore caldo su Nicomedia l’imperatore in persona, il divino Gaio Aurelio Valerio dalla finestra del suo palazzo. Affianco a lui sua moglie.

La città è diventata splendida da quando l’aveva scelta come capitale. Archi di trionfo, teatri, il Capitolium, le arene, il porto affollato di navi… ormai è lì il nuovo centro del mondo! La baia limpida è assorta in una pace dolcissima.

«Cosa pensi?» chiede la donna.

«Sono tempi grami e Galerio non ha fatto che aggiungermi problemi e agitazioni…».

«Però ora ci sei tu e tutti i popoli sono al sicuro!».

L’uomo non ne è così convinto. La crisi di potere, l’inflazione, le ribellioni dei popoli interni e la pressione dei Barbari, i legionari che muoiono a migliaia nelle battaglie ai limes, il grande uomo dalla faccia ovale non è tanto persuaso che riuscirà a far fronte a tutto questo.

«Che pace!» afferma, rivolgendosi ai bricchi verdi e agli squarci di mare evanescenti all’orizzonte.

La consorte accenna un “sì” con la testa.

«Eppure l’impero è in fiamme, ovunque possono nascere nuove ribellioni, l’infelicità dei popoli diventa ogni giorno un’arma per i sobillatori» prorompe il divino con una voce che non pare la sua. Abituato a comandare soldati e ammansire cavalli recalcitranti, a ordinare assalti, a rimanere freddo e impassibile davanti ai corpi macerati dei propri legionari alla fine di uno scontro, adesso, per la prima volta, si sente strano. Un uomo di ghiaccio non può sciogliersi, pensa di sé in quell’istante.

La donna lo fissa turbata. L’uomo che l’aveva sposata, l’invincibile generale, il primo degli imperatori, il più anziano, il più capace, il più fiero, davanti a lei è un uomo debole. Per la prima volta.

Sa della sua triste infanzia, delle prove della vita che gli avevano forgiato quel carattere marziale e indefesso, ma non aveva mai avuto il coraggio di chiedergli nulla in più di ciò che egli le aveva raccontato.

«Sono sicura» prova a dirgli «che riuscirai a risolvere tutti i problemi. E la pace verrà!».

Gaio Aurelio Valerio è abituato a non distogliere mai lo sguardo dai suoi pensieri, nemmeno quando Prisca gli parla. E la moglie è l’unica persona al mondo a potergli parlare quando sta rimuginando un’idea.

Dopo qualche istante, invece, volge il suo collo taurino verso di lei. Negli occhi un fuoco divoratore zampilla irruento. «Si vis pacem...» ricorda.

Dagli occhi neri di lei non arriva risposta.

«E la Tetrarchia?» prosegue allora, lui. «Pensi che la Tetrarchia reggerà?».

«Certo! Il sistema politico ora è stabile. Prima di te ogni generale ambiva al trono. C’erano scontri, guerre fratricide, congiure e troppo sangue…».

«Poi quella sacerdotessa mi disse: “quando ucciderai un cinghiale sarai imperatore!” E così ho ucciso Apro» nota.

L’uomo è molto devoto delle pratiche degli indovini e degli aruspici.

A Prisca il sole addosso dona molto, rende merito alla sua avvenenza.

«Con Massimiano, Costanzo e Galerio l’impero è sicuro!» esclama lei, senza dare seguito alle riflessioni del marito.

L’Augusto sembra rasserenarsi un po’, a quelle parole. La voce ferrigna della donna lo convince della bontà delle sue scelte.

Ella gli si avvicina ancora di più, gli cinge il collo con le braccia lunghe e si sussurra: «Prisca non merita forse un premio, per questi suoi saggi consigli…».

L’uomo la bacia, improvviso, con forza. Un lungo e appassionato bacio. Quando si stacca dalle sue labbra, ella protesta: «Oh, Aurelio, non vorrai smettere proprio ora…». L’altro sorride: «Ho fatto convocare Targis» afferma «che sarà qui a momenti». La moglie pensa di poterlo ancora convincere, ma si accorge subito che, invece, in questo non sarebbe riuscita e desiste. Ogni volta che Gaio Aurelio prende una decisione irremovibile, solleva le sopracciglia e sgrana gli occhi oppure mastica aria ingrossando le mascelle. Quando si arrabbia molte volte diventa iroso come Achille e nessuno vorrebbe stargli accanto.

«A dopo, amore!» si congeda lei.

Intanto bussano alla porta.

«A dopo!» le replica sbrigativo lui.

Nell’enorme stanza entra Targis, frettolosamente. Vestito di un lungo mantello nero che gli scende sui piedi e gli permette solo passi brevi e un bastone di metallo che si attorciglia in cima in una spirale, è basso di statura e minuto. Le orbite degli occhi sono segnate da rughe.

S’inchina, saluta con devozione e chiede preoccupato il perché di tanta urgenza.

In effetti, l’aruspice conosce il problema dell’imperatore, ma mai egli l’ha fatto chiamare così tempestivamente.

Da qualche mese Gaio Aurelio ha il sonno agitato. Il suo medico di fiducia gli aveva già somministrato chissà quante e quali tisane ottenute ora con la camomilla, ora con le margherite, unguenti e spezie e nonostante ciò questi palliativi non hanno sortito effetto. Così il divino crede che si tratti degli dèi. Così Targis, l’aruspice, è l’unica possibilità.

Infatti, ogni notte, nell’ampio letto coperto di seta pregiata proveniente dalla Siria, il grande statista combatte tenaci lotte contro un incubo ricorrente. Si desta tutto sudato, come uno schiavo che trasporti un pesante masso, come nel mezzo della battaglia contro i Sarmati, come eccitato dalle marce estenuanti sui polverosi campi del Medioriente o provato dal sole di Giugno.

La sua enorme stanza è al centro del vastissimo e magnificente palazzo che sovrasta le acque del Bosforo e controlla l’accesso al mare romano. Quando si alza, di notte, trascorre ore a fissare le fitte stelle che assomigliano una rete che peschi le lontane luci delle città all’orizzonte. La luna taciturna e feroce sovrasta con il suo lume ogn’altro lume e dà vita e forma a tutte le cose. Il vento continua incessante a soffiare tra le case sottostanti mentre Nicomedia dorme beatamente.

Sono oramai mesi che questo strazio continua. Cosa gli è successo? La tensione accumulata per le responsabilità di governo? La preoccupazione per la sorte dei milioni di Romani che si fidano di lui? O il suo pensiero vola alle barriere del Reno e del Danubio, oltre le quali chissà quali e chissà quanti barbari, appollaiati lassù nella gelida ed inviolabile terra di Tule, meditano la fine dell’Impero?

Per quanto un uomo sia eccezionale è pur sempre un uomo, pensa il rude soldataccio vestito di lino e profumato con lozioni di mirra. E più s’agitava per liberarsi di quei pensieri più quei pensieri lo stringevano di segreti lacci e di un’inquietudine interna che sembrava non abbandonarlo più.

Targis, adesso è lì, esile e basso, di mezza età, porta una lunga barba, ma non ha capelli sulle tempie: «Ave, imperator!» saluta.

«Targis! Sempre la stessa storia. Il solito sogno. Interpretalo!».

«Quale, signore. Quello in cui vi è un ragazzo che gioca su di una spiaggia?» chiede, cercando di nascondere con la mimica facciale e un tono di voce fintamente comprensivo l’ironia delle intenzioni.

«Quello!» chiosa l’altro.

«Necessito di particolari, sommo Augusto! Vi prego, ditemi: com’era il mare, agitato?».

«Per nulla!».

«Ed il ragazzo? Che sentimenti manifestava il ragazzo? Cosa faceva?».

«Correva a torso nudo sulla spiaggia, prima con un gruppo di gente in lontananza. Giocavano, in seguito, con una palla» racconta, muovendo le mani e mimando la scena. «Ad un certo punto, inspiegabilmente, il gruppo sparisce ed egli si ritrovava a correre verso me, poi cadde, come se scivolasse volontariamente, e trovò una buca. La risacca del mare entrava nella buca e si ritirava spumeggiante. Quindi, egli trovò qualcosa e scavò frettolosamente. Intanto il cielo diveniva tempestoso e le onde del mare si alzavano. Cominciò a piovere. Egli scavava più forte. Fece a tempo a leggere sulla pietra incisa una “D”. Poi, come al solito, capita che mi sveglio in preda alle convulsioni».

«Oh, signore! Ciò è poco chiaro…» si giustifica l’interprete.

«Con tutti questi particolari?» delira quello. Quell’urlo è come un tuono. La sua mandibola si sporge in avanti e mostra evidenti i segni della sua furia, il volto si contrae, le spalle larghe incutono paure tremende al povero aruspice.

Forse più bloccato dal terrore di dire che dalla paura di non dire stava intervenendo pacatamente, quando l’imperatore riprende a parlare: «è naturale! C’è un cambiamento! Il cielo sereno diviene crespo. La marea, prima disciplinata, si agita. E quella pietra … cosa può essere quella pietra sulla quale è scritta la lettera “D”? …» domanda verso il sacerdote, famelicamente. «Parla!» gli ordina contro sbattendo i pugni sul tavolo di legno di cedro. L’eco della sua voce risuona grave per tutta la stanza e si ode persino in fondo al lunghissimo corridoio. «Parla, se vuoi aggiungere un giorno ai tuoi giorni!» lo diffida.

Quella minaccia immobilizza il giovane sacerdote egiziano che pensa, allora: meglio dire le cose come stanno, anche se di triste presagio che tacere ed andare incontro a morte certa!

Il massiccio imperatore ha una forza fisica tale da poterlo scaraventare giù dalle scale piuttosto che, abile con le armi, ha la capacità di infilargli una daga in gola. I suoi scatti d’ira sono conosciuti ovunque. Targis non vuole nemmeno porsi il dubbio di sapere in quanti e quali modi cruenti potrebbe spargere il proprio sangue. Si affretta a dire: «Sommo Augusto, la pietra è tombale di certo, poiché i ritrovamenti in spiaggia di giorno e il successivo cambiamento del clima indicano pericolo di vita. Dalla descrizione che hai magistralmente dato, poi, si capisce che le cause si manifesteranno nel volgere di un anno e che le conseguenze saranno durature. Questo è indicato esplicitamente dal repentino e improvviso cambiare del tempo e dall’allegria trasformata in agitazione. Comunque, mio signore, per capire meglio questi vostri sogni bisognerebbe sacrificare agli dèi. Dunque, mio divino, lasciate che io imbastisca un sacrificio rituale imponente che magnifichi la vostra gloria e ci faccia capire quale direzione prendere in tanta contrarietà di venti».

Questo dice, per non dire nulla. Targis temporeggia come Quinto Massimo con Annibale. Lo conosco, fa così; è un gran cialtrone, riesce ad imbavagliarti davanti a lauti discorsi congetturanti alla fine dei quali, però, resta l’amaro dell’evanescenza. Immagino bene, poi, quando rischia.

Il muso duro dell’imperatore, infatti, gli incute da sempre paura profondissima. I suoi occhi gelidi e alteri sembrano sospendersi nel vuoto della camera alla ricerca di visioni o apparizioni. I suoi occhi ruotano nervosamente attorno.

Il povero sacerdote degli dei abbassa il capo e spera che nulla più gli spetti.

Così fu. Quello, fatto un minuto di silenzio, accorda la licenza richiesta perché si interroghino le viscere degli animali per conoscere il responso circa gli inquietanti presagi che si abbattono da tempo sulla sua persona e sull’Impero.  Poi lo lascia andare. Così, quella notte l’imperatore riprende sonno e il sacerdote – indovino lo perde.

Altre due vicende allertano Gaio Aurelio. Una avviene due giorni dopo l’emanazione dell’editto. Uno degli appartenenti alla setta dei cristiani ha stracciato in piazza, a Nicomedia, una delle capitali dell’Impero, il decreto di limitazione delle libertà delle loro comunità. Naturalmente arrestato, è stato prima torturato e poi giustiziato.

Il secondo fatto accade di notte. L’imperatore sta dormendo nella sua camera quando, improvvisamente, sente fortissime urla e un odore così forte gli giunge alle narici che si desta repentinamente. Gaio Aurelio non si scompone, agilmente si sposta dal letto si sporge dalla finestra e vede l’ala adiacente alla sua camera come una grande torcia accesa che sembra il rogo di Ettore.

Così com’è, afferra la mano di una immobilizzata Prisca e lascia la stanza nella quale inizia a entrare il fumo.

Tutto il complesso è già pieno di terrore e spavento. Le fiamme guizzano selvagge e brutali, divampando sotto le innumerabili stelle d’Oriente. Accorrono i pretoriani e spengono il fuoco.

Un altro fuoco, però, ormai si è acceso: il fuoco dell’ira e dello sdegno. Un fuoco che medita vendetta. L’illirico Gaio Aurelio brucia di rabbia. Arriccia il naso, stringe la mandibola e tace. Brutto segno.

Dopo poco, infatti, convoca subito il prefetto del pretorio che gli conferma che si tratta di un attentato, poiché la matrice dell’incendio è dolosa.

Inoltre, in una lettera giunta dopo qualche giorno da Galerio, questi gli ribadisce la propria convinzione: “Ho una certezza in cuore: sono stati i cristiani!”.

Gli auspici di Targis, l’editto strappato pubblicamente, l’incendio della residenza; tutto questo è troppo! Gaio Aurelio Valerio emana prontamente l’ordine che tutti, a corte, sacrifichino agli dèi e al genio della sua persona. Egli è un dio e come un dio va onorato. Un giorno il suo nome, come è venerato e rispettato in tutto l’orbe, sarà una costellazione dei cieli. Ceri, voti, statue ne celebrano la grandezza morale al di sopra di ogni altro essere umano. La sua divinità vuol dire la divinità di Roma stessa. Oramai l’imperatore è l’impero. Assiso come un gufo insonne sulla sommità del trono, rivestito di porpora e di oro, scruta l’imperatrice Prisca e la loro unigenita Valeria, la moglie di Galerio, farsi avanti. Sono esse a dovere per primo eseguire le cerimonie. Le sue donne saranno l’esempio per tutte le genti. Prisca è davvero molto bella, con la corona tempestata di diamanti, il viso lindo, profumata con un’essenza di fiori mediterranei. Quando appare nell’enorme salone delle udienze, tra due fitte ali di consiglieri e di amministratori del palazzo, fa dimenticare il leggero ritardo e zittisce il vocio per il quale lei e sua figlia sarebbe state cristiane e non si sarebbero presentate. Invece, entrambe, una di fianco all’altra, sfilano con garbatezza, nonostante lo sguardo sia perso nel vuoto della sala. Esse versano latte e vino. Pregano. Accendono un cero. Qualcuno, nella folla, mormora al vicino che sembrano sincere come Clitennestra con Agamennone. Qualcun altro schernisce coloro che hanno creduto che Prisca e Valeria non si sarebbero presentate.

Quando il rito era concluso, prima che le due donne se ne andassero, l’imperatore si alza dal trono e le invita a professare la loro fede negli dèi.

Prisca e Valeria si guardano. Sono timorose. Quel secondo di esitazione sembra essere un secolo. Quindi la moglie si fa avanti e ad alta voce esprime la sua estemporanea orazione:

«In nome del popolo di Roma, per la salute, la forza, il sostegno al nostro fausto impero, io, Prisca Lucilla, prego Giove Massimo, Giunone, Minerva e tutti gli dèi dell’Olimpo. Prego per la Tetrarchia. Prego dinnanzi al genio del divino imperatore Gaio Valerio Aurelio Diocleziano, dio in terra, padre della patria e sommo pontefice, il quale ha dato e darà la pace ai popoli dell’Impero!». Lo stesso fa Valeria. I presenti sono in un attimo convinti della buona fede dell’imperatrice e di sua figlia e il rito continua, anche se si compie in un’atmosfera non certo serena. Chi non dovesse sacrifica sarebbe fustigato, incarcerato e messo a morte. Ogni addetto al palazzo imperiale esegue alla lettera quanto prescrivono le antichissime consuetudini religiose romane. Quelle consuetudini che avevano portato gli eserciti a grandi vittorie, a grandi rinascite morali in periodi di frenesie e frustrazioni, quelle consuetudini sono Roma stessa, la Roma che per un millennio si è perpetuata ostinatamente contro tutto e tutti. Proprio per quei riti la sua stessa gloria prospera felice e fausta, è la tesi dell’illirico. Questi pensieri affollano la sua mente, mentre osserva circospetto e attento quelli che di fronte a lui si fanno avanti e s’inginocchiano. Il suo trono d’oro e pietre preziose è dietro ad un piccolo altare quadrangolare, un unico blocco di marmo pregiato proveniente dalla Grecia. Alto un metro circa, è adornato di rappresentazioni allegoriche e del mito: il sacrificio di Ifigenia, i sacrifici di Ulisse per tornare in patria, i sacrifici di Romolo per sapere dove fondare Roma e una scena di convitto degli dèi con al centro il barbuto Giove e la corte degli olimpici. Lì presso vi è il ritratto dell’imperatore stesso e della triade capitolina. Poco più là, la scultura ufficiale della Tetrarchia, del governo dei due augusti e dei due cesari, una figura esposta in ogni piazza di ogni città dell’impero, dalla Spagna a Nicomedia, dalle sabbie d’Egitto alle nevi sassoni. Al centro dell’altare schioppetta un fuoco davanti al quale devono sostare e accendere i ceri con i quali votano le proprie preghiere.

Diocleziano e Massimiano, Galerio e Costanzo Cloro si abbracciano insieme. Questa statua rappresenta la pace dell’impero. Tra i tanti soprannomi che i popoli le hanno affibbiato, il migliore è forse quello di Valeria che l’ha definita “il quarto abbraccio”. Solo se il quarto abbraccio chiude tutti gli altri abbracci, la pace è perfetta. Tutti si fidano di tutti. Tutti sono uno. Così, giurare fedeltà e sacrificare davanti al simbolo del potere dei tetrarchi e davanti al ritratto dell’imperatore è il modo più evidente di distinguere i fedeli dai traditori.

I sacrifici procedono speditamente. Una decina di acerre bruciano incessantemente quando, ad un certo punto, avanza al centro della sala Paolo, ciambellano di palazzo. Trentanove anni, di media statura, sempre allegro e sempre disponibile, abile organizzatore del lavoro altrui. Arrivato davanti al severo sovrano non si inchina.  Si attende invano, per qualche istante che, come gli altri, ripeta i noti gesti. Invece, rimane lì, glaciale. Lo sguardo di ogni presente, dunque, è subito magnetizzato dalla sua piccola figura. La monotonia di quell’imposizione rituale, lo spavento e la pedanteria sono scacciate via da quel piccolo ciambellano che non vuole sacrificare.

«Allora, Paolo! Non sacrifichi?» tuona il divino, poco dopo, muovendosi leggermente da quella sua espressione ciceroniana e riflessiva a una più solenne ed imperiosa.

«Non posso sacrificare, o imperatore, che al mio Dio, Signore del cielo e della terra!» dichiara pacatamente quello.

Il chiacchiericcio dei commenti esplode improvviso nella sala delle conferenze, tra quelle altissime colonne e quei marmi pregiati, tra le statue degli dèi dell’Olimpo e i ritratti imperiali, tra i pretoriani immobili ma vigili e l’altare. Allora era vero! Galerio e gli altri avevano ragione. Persino nel suo palazzo si annidano, non visti, i germi della malattia. Persino nel suo palazzo ci sono cristiani. Stenta a crederlo.

«E vuoi così offendere il tuo imperatore, dio in terra, e Giove suo padre?» conclude il potente, alzandosi dallo scranno, urlandogli contro e puntando l’indice accusatorio verso di lui. Paolo lo conosce bene e non si meraviglia di una reazione simile: «Sono io che offendo la divinità volendo pregare il vero Dio o chi si paragona alla divinità?» querula.

I presenti restano con il fiato sospeso, non sanno se ridere o se piangere, per paura di infastidire il divino.

Urla a tutti, il reggente dei popoli: «Romani, ascoltatemi! L’impero è in crisi, molte fosche nubi ci sono all’orizzonte…». Così dicendo, inizia a camminare, scende gli scalini, scruta torvo il ribelle, gli cammina intorno, mentre prosegue il discorso: «…L’economia, le usurpazioni, le guerre contro i Barbari. Tuttavia uno solo è il problema più grande per noi, che sappiamo fare la guerra e vincere tutto. Questo problema è una peste, una febbre che ha preso i nostri giovani, i nostri schiavi, le nostre donne, i nostri uomini più deboli. La peste sono i cristiani!». Si ferma, allora, proprio davanti agli occhi sacrileghi dell’infedele collaboratore.

«Dunque, Paolo, tu sei cristiano! Morrai come tutti i cristiani!» strepita furente.

«I cristiani muoiono per vivere!» si sente rispondere.

Gaio Valerio gli ribatte: «Intanto muoiono!» e repentino gli sferza uno schiaffo così forte che l’altro cade per terra. La violenza di quel colpo è evidente, Paolo sanguina vistosamente dalla bocca. «Sia messo a morte!» ordina allora.

«Diocleziano!» il ferito pronuncia il suo nome ad alta voce, sputando sangue, «Ti perdono in nome di Gesù Cristo!».

Si immagini come quel dio-uomo fremi nelle carni. Non solo quel burocrate di corte lo offende pubblicamente, gli preferisce quel dio-falegname, ma gli offre il perdono, non si sa di che, e lo chiama per nome!

«Sia messo a morte!» urla di nuovo. «Sia messo a morte!» ripete come un flauto stridulo. Immediatamente due soldati lo prelevano in malo modo da terra e lo trascinano fuori dalla sala, scomparendo nel buio di una porta. Il terrore scende tra tutti. Alcuni speculano sullo spettacolo ridicolo e strano, sempre pieno di orgoglio e di ostinazione, che i cristiani offrono.

«Sono rimasti i “teatranti” del tempo di Marco Aurelio…» sibila Ierocle a Gioviano.

Oltre Paolo, anche Doroteo, Gorgonio e alcuni altri saranno fustigati e messi a morte. Intanto Gaio Aurelio Valerio torna a sedersi sul trono e osserva che altri, anche se pochi, hanno seguito l’esempio di Paolo. “Tutti questi cristiani nella mia corte!”, medita. Gira lo sguardo e vede Targis. L’egiziano, che gli ha consigliato quei sacrifici, gli deve delle risposte. Lo chiama a sé con un cenno nervoso della mano. L’altro, che non ha potuto evitare di incrociargli lo sguardo, sale le scale, tremante.

«Sua Altezza desidera?».

«Allora. Per questo mi hai consigliato i sacrifici? Sapevi che c’erano tutti questi cristiani?».

Cauto l’altro risponde: «No, Altezza. Non sapevo nulla dei cristiani. Il volere degli dèi mi ha parlato e io vi ho consigliato i sacrifici!». Inghiotte la saliva, pronto al peggio. L’imperatore guarda altri che compiono regolarmente le funzioni e afferma: «Ottimo consiglio. Avevamo il nemico pubblico in casa e non ce ne siamo accorti! Ora voglio che sveli quei miei sogni» ingiunge.

«Imperatore, anche stanotte…» chiede l’aruspice. «Anche stanotte!» lo interrompe il coronato. L’altro rassicura che in pochi giorni avrebbe avuto una risposta e va via, pensieroso. Il principe del mondo si delizia a dividere uno per uno traditori e fedeli, fino alla fine.

Quando tutti passano gli passano innanzi, ha già deciso dentro di sé che non avrebbe lasciato vivo neppure un cristiano in tutto l’impero.

Ippona, 15 Maggio 1056 ad Urbe Condita

Poco tempo dopo, come oramai da anni, io insegno nella mia città, Ippona, quando un giorno arriva una lettera importante, consegnatami da un delegato di corte approdato da Nicomedia. L’uomo entra in casa e i miei servi lo fanno accomodare e gli versano vino. Io lo raggiungo dopo qualche minuto.

«Hai fatto un lungo viaggio, amico!» gli stringo la mano.

«Se si cammina in un mare romano non è mai troppo lungo!» mi replica.

Ben vestito, con un anello d’oro e qualche bracciale, i capelli pettinati e di modi che mi paiono subito raffinati, a quella risposta penso che sia un gran parlatore. Dal colore olivastro della carnagione direi che la sua origine deve essere siriana o al più egiziana. Curioso di saperne di più, lo interrogo: «A che proposito mi onori della tua visita?».

«Sai da dove arrivo?»

«Come potrei, amico, se non ti conosco. Hai bussato alla mia porta chiedendo di me e dicendo che vieni da lontano e che hai una notizia importante da darmi. L’unica cosa che so sul tuo conto è che sei un tipo misterioso…» scherzo, mentre sorseggio dal calice di bronzo il buon nettare delle uve.

«Nicomedia!».

Se avessi incontrato Giove, sarei stato meno sorpreso. Corrugo il viso e gli chiedo spiegazioni.

Per risposta mi dice che l’imperatore ha messo in atto una serie di provvedimenti che ristabiliscano ancora più e ancora meglio la legge e la regalità delle tradizioni antiche. Ha deciso, quindi, di dare una caccia spietata ai nemici pubblici dell’impero: i cristiani.

«L’editto è stato affisso anche qui, in piazza, come in ogni piazza dell’impero…» confermo, sorpreso. Non si faceva che parlare della notizia da settimane, come è possibile esserne all’oscuro?

«Il divino mi manda a dirti che ha bisogno del tuo aiuto!».

«Oibò, e come posso, di grazia, essere utile a Diocleziano?».

«Nemmeno io lo so» mi confessa. «Questa è la lettera con il sigillo imperiale. Io il mio l’ho fatto, ora tocca a te!» sermoneggia. Io la prendo e sto per posarla su un tavolinetto lì nei pressi.

«Non la apri» mi interroga, evidentemente stupito.

«Non adesso. Appena ci saremo salutati».

«E se l’imperatore volesse una risposta immediata?».

«Se l’imperatore avesse preteso una risposta immediata sarebbe stata la prima cosa che mi avresti detto, perché sarebbe stata l’unica cosa che avresti saputo».

«Comincio a capire perché molti hanno storto il viso quando il tuo nome circolava a palazzo. Darai del filo da torcere a parecchi…».

«Con l’aiuto di Giove!».

E così il messaggero si congeda da me. Sarebbe ripassato il giorno dopo per conoscere la mia risposta in merito alla comunicazione.

Io, appena esce di casa, corro a leggere il messaggio.

Oltre i soliti convenevoli, c’è questo di importante: Diocleziano mi convoca a Nicomedia per combattere i cristiani! Avrei dovuto studiare i loro libri e inserirmi nella comunità locale come uno di loro.  Uhm, ottimo lavoro da spia imperiale.

Anche nella mia città c’è una statua del “quarto abbraccio”, quella concordia tra imperatori che vuole dire sicurezza e pace. Così, quando il pomeriggio esco per la via e vedo quella statua guardarmi, ficco gli occhi negli occhi di un Diocleziano in porfiro rosso che mi chiede disperato soccorso e mi rispondo che avrei accettato.

L’imperatore mi chiede di aiutarlo a salvare l’impero, come rifiutare?

 

Ultimo aggiornamento (Giovedì 05 Dicembre 2013 12:49)