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BREVISSIMO SAGGIO SU GIOVANNI PASCOLI IN OCCASIONE DEL CENTESIMO ANNO DALLA SUA MORTE


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http://casapascoli.it/

 

 

 

BREVISSIMO SAGGIO SU GIOVANNI PASCOLI IN OCCASIONE DEL CENTESIMO ANNO DALLA SUA MORTE

 

Sulla vita di Pascoli si trovano intere biblioteche in cui vi potrete trovare persino quello che ha mangiato alla sera prima di placare l’anima, ragione per cui, seppure vi sono legittimi interessi a sapere, io non dirò. Non dirò, dico, se non nello stretto necessario al commento delle sue rime.


La prima delle raccolte di Giovanni Pascoli è Myricae. Significativo il titolo, non tanto e non solo perché richiama le Bucoliche virgiliane o l’amata letteratura latina, ma perché questo titolo è stato scelto in luogo del primo, Erbucce, senz’altro infinitamente meno efficace.

Ci si chiederà… perché mai è così efficace un titolo copiato?

Se si legge la raccolta si notano così profonde differenze con il passato che non è copiatura, quella di Pascoli, ma rievocazione e rilettura.

La letteratura tutta, da quando e nata e sin quando morirà, voglio dire molto dopo che l’ultimo uomo sarà sparito dal globo, è sicuramente una catena di corrispondenze. Si può parlare e rispondere a distanza con autori del passato, addirittura parlare ai posteri. Una sorta di “telefonata storica e morale”.

Perciò il titolo, se deve a quel passo, ne rinnova la portata e la freschezza.

Si erge a difesa di tutto quel mondo contadino che stava sparendo, a quell’idea di famiglia che la violenza umana e l’interesse danaroso aveva sconvolto. Ci si rivolge alla natura come ad un miracolo, alla storia come ad un libro su cui leggere la propria vita in quelle altrui, riconoscendoci fratelli. Per comprovare quanto affermo, mi basterà richiamare alla tua attenzione, lettore, l’attenzione a la cura che Pascoli ha mostrato sempre per lo studio e il rifacimento della metrica latina (per cui ha vinto anche concorsi illustri) e le forme metriche della tradizione campagnola, specie di romagnola, gli strambotti, i madrigali ecc…


Però meglio sarà leggere i testi.


ARANO – Madrigale di 2 terzine e 1 quartina.

Nella prima terzina c’è la presentazione dell’ambiente rurale, il pampano, le fratte, la nebbia.

Seconda terzina; si apre col verbo, arano, in enjambement con la terzina precedente.

E qui la scena si apre a uomini e animali.

La quartina è degli animali soli, in specie dei volatili (così tanto vivi nella poesia pascoliana, credo per l’idea di tenerità e di libertà che ispirano).

Il passero, il pettirosso godono e tintinnano.

Interessante, mi pare, notare come gli animali siano identificati, le vacche, il passero e il pettirosso, appunto, mentre per indicare l’elemento umano ci si riferisca con dei pronomi indefiniti, uno, altri, un…

Si è persino sostantivato un oggetto, la marra, e lo si è aggettivato, paziente, ma degli uomini no, sono come ombre in questo paesaggio dominato da natura, fauna e flora.

Eppure l’elemento umano, seminvisibile, è centrale. La lirica si intitola Arano. L’azione umana è posta al centro dell’idillico paesaggio quasi in aspettazione, quasi in contemplazione del lavoro umano dal quale troverà essa stessa, la natura, giovamento.

Di questa semplicità disarmante e armonica, Pascoli darà molte prove, come massima ispirazione di un difensore del mondo che finisce, tenacemente attaccato a ciò che l’ha nutrito, piuttosto che aperto a ciò che iniziava, un’era industriale che avrebbe per sempre cancellato quei modi contadini rozzi ma genuini.



NOVEMBRE – Strofe saffiche, tre endecasillabi e un quinario per tre strofe.


Il poeta sembra che stoni, con una poesia intitolata Novembre e un’apertura quasi primaverile, tanto che tu ricerchi gli albicocchi in fiore manco fosse Aprile.

La seconda, invece, ti disinganna, con un ambiente senza vita. L’unico elemento di vita è il piè sonante, a cui però risponde il terreno cavo.

Chiusa. Il silenzio, le ventate, il cader fragile delle foglie.

Coesiste, così, un paradosso. L’estate fredda dei morti, la cosiddetta “estate di San Martino”, santo martirizzato l’11 Novembre. In quei giorni, spesso, il sole regala dei brevi giorni quasi primaverili.

Coesiste realmente questo paradosso. Ed è singolare che Novembre, dunque, assuma un significato intenso di mese sommativo della vita. Di paradosso reale. Di possibilità che il mese dei morti, sebbene freddo, sebbene senza vita intorno, appaia primavera.

Questa realtà-apparenza deve essere studiata. Il poeta la lascia vaga, larga, proprio perché vuole uno sforzo di chi legge. Non vuole trarre la sua conclusione definitiva. Non lo chiama né paradosso, né inganno, né errore. Lascia a noi lo studio di questa formula tradizionale del cielo sereno a mezzo Novembre.

Questa è la maggiore suggestività della poesia.


LAVANDARE

 

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
Come l’aratro in mezzo alla maggese.

 

Madrigale, 2 terzine e una quartina di endecasillabi.

Enjambement e anastrofe (viene/lo sciabordare);

Chiasmo (tonfi spessi e lunghe cantilene);

Allitterazioni (in "r" "v" "f" il vento soffia e nevica la frasca);


Le due terzine indicano ancora un romagnolo paesaggio campagnolo, un aratro che pare dimenticato in mezzo al campi, il vapore leggiero della nebbia, e poi lo sciabondare delle lavandaie che, al canale, andavano a lavare i panni. Il sesto verso è così musicale che, con i due aggettivi – spessi e lunghe- ci fa quasi sentire questi tonfi e queste cantilene. Sono suoni onomatopeici, accompagnano sensibilmente il lettore nell'immaginazione filmica della sequenza di immagini.


La quartina è invece una poesia nella poesia, lo stornello della tradizione marchigiana di una donna abbandonata dal proprio uomo. O meglio, sottilmente, della bruttezza della guerra che chiamava soldati gli uomini i quali erano costretti a lasciare a metà il lavoro dei campi (da qui il campo mezzo grigio e mezzo nero- cioè mezzo arato e mezzo no) ma anche gli affetti, le moglie, le compagne.

Nella voce di quella innamorata infelice c’è il dolore lungo dei secoli, la condizione di passività alla quale la donna è condannata, il lavoro duro indurito dal pensiero di un cotanto amore sfiorito, il paragone dell’aratro abbandonato con l’animo della stessa lavandaia.

Anche il paesaggio invernale, lo si capisce dalla presenza della nebbia, dal colore scuro del campo, dal vento e dalla neve, è presagio di questa stagione morta del cuore in cui anche l’amore, persino l’amore è abbandono.


IL LAMPO – Stanza di ballata di endecasillabi rimati.

Piccolo scrigno di arte retorica più incline alla musicalità e alla teatralizzazione visiva del racconto che alla esorbitante o roboante cifra del verso come in quegli anni il dannunzianesimo.

Il primo verso è un esempio di sillessi o concordanza a senso:


E cielo e terra si mostrò qual era:


anziché E cielo e terra si mostrarono quali erano, poiché il soggetto è plurale. Quindi c’è accordo logico e non grammaticale.


la terra ansante, livida, in sussulto;


Assistiamo al respiro affannoso della terra, del globo quindi personificato. La personificazione è anche detta prosopopea.


bianca bianca nel tacito tumulto

una casa apparì sparì d’un tratto;


L’anafora (bianca bianca) ha un valore di superlativo. Ci vuole dire che è bianchissima la casa che appare e scompare (messi affianco a indicare la velocità della visione) nel tacito tumulto.

Ancora un’immagine eccezionale. Il tumulto, solitamente, è da noi associato a confusione, tramestio, qui invece è tacito, perché in effetti siamo davanti al fenomeno del lampo che precede di attimi quello del tuono. Ci fa, dunque, notare anche la discronia del fenomeno intero.

 

 

come un occhio che, largo, esterefatto,

s’aprì si chiuse, nella notte nera.


L’analogia con l’occhio che si apre e si chiude dà la dimensione della cifra poetica molto delicata che in Pascoli assumono i rimandi. Sono tracce, sono fili che si intersecano a formare la medesima tela.


La notte nera, chiede la lirica. Il nero della notte chiude il bianca bianca del colore fosforescente del lampo.




IL TUONO – Stanza di ballata di versi endecasillabi.


E nella notte nera come il nulla,


a un tratto, col fragor d’arduo dirupo

che frana, il tuono rimbombò di schianto:

rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,

e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,

e poi vanì. Soave allora un canto

s’udì di madre, e il moto di una culla.



Se Il lampo era una specie di tragedia, che finiva nella notte nera, Il Tuono è commedia, che parte con la stessa notte nera e si chiude con il moto di una culla, immagine soavissima.

Analogia tra la notte e il nulla.

Velocità dell’azione, il fragore (rumore scomposto) di una caduta (che frana) violenta (arduo) di rocce (dirupo) il tuono (soggetto dell’azione) rimbombò di schianto, ove la voce onomatopeica di rimbombò che nell’allitterazione prolunga il rombo, il fracassoso rumore di caduta e nello schianto ci dà un’immagine visiva efficace di quanto forte e distruttiva sia tale energia.

Accumulazione di tre verbi in asindeto e di tre in polisindeto. Tutte voci onomatopeiche e allitteranti.

Quel vanì sta a indicare l’assoluto silenzio con cui si conclude il tuono. Ultimo verso e mezzo con ben altre parole, soave, canto, madre, moto, culla. La madre che prende a consolare il piccolo dallo spavento.

Ultimo aggiornamento (Venerdì 22 Novembre 2013 17:13)