FRANCESCO PETRARCA E LA RICONQUISTA DEL SENSO DELLA VITA TRA ERRORI MONDANI E ANSIA DEL DIVINO
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Francesco Petrarca, nato ad Arezzo e vissuto tra Avignone, Milano e Arquà, principalmente, deve la sua immensa e strepitosa fortuna di scrittore al tiro mancino della Fortuna, alla propria vocazione letteraria miscelata ad una forte e ancorata conoscenza dei classici e alla sapiente strutturazione tecnica della canzone, suo capolavoro.
Il tiro mancino della Fortuna, si dica qui e si ripeta spesso, è che egli scriveva cose serie in latino e giochi in volgare, ma la sua fama gli è dovuta dai giochi, non dai poemi.
Il talento e la conoscenza sono un dono di Dio il primo e un costante impegno di lettore il secondo.
Infine la sapiente strutturazione della canzone che prende il suo nome: canzone petrarchesca.
Petrarca vive un periodo storico che, se possibile, era anche più controverso di quello comunale vissuto da Dante.
Il futuro poeta ha soli quattro anni quando inizia la Cattività Avignonese, il periodo in cui la sede del Papa si è spostata da Roma ad Avignone, piccolo centro della Provenza, Francia.
I papi francesi si alterneranno sul soglio di Pietro per circa settant’anni.
Dal 1309 al 1377, anno in cui Gregorio XI sceglie di fare ritorno nella Città Eterna.
Sono questi gli anni in cui agisce il Petrarca. E se a Roma non c’è il Papa ma la Repubblica Romana di Cola di Rienzo, nell’Italia settentrionale, all’iniziale affermazione degli Scaligeri succede la grande ascesa dei Visconti, signori di Milano, con Luchino prima e Gian Galeazzo poi.
Francesco finisce i suoi giorni ad Arquà, si diceva, nelle campagne padovane, a due passi da Venezia.
Volgeva l’anno 1374 e l’ormai famoso poeta ha settant’anni.
CANZONIERE
Il Canzoniere assomma 366 componimenti: 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali.
Il titolo originario è latino, Rerum Vulgarium Fragmenta, Frammenti di cose volgari. Le sue poesie, i suoi sonetti, sono “cose” nella mente di un cultore dell’antichità classica, latinista e colto.
L’opera consta di due parti, in vita ed in morte di Laura.
Il primo sonetto è, a giusta ragione, famosissimo e l’incipit, in particolare, significativo.
VOI CH’ASCOLTATE IN RIME SPARSE IL SUONO
Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond'io nudriva 'l core
in sul mio primo giovenile errore
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono,
del vario stile in ch'io piango et ragiono
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sí come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
“Voi”, inizia così Petrarca. Incipit, questo, se vogliamo inusuale, ma che si deve pure leggere alla luce dell’ultima poesia, quell’inno alla Vergine altrettanto denso di simboli e di pietà.
Le sue “cose volgari” sono qui “rime sparse”, a sottolineare, se ce ne fosse bisogno, la poca cura che egli afferma di prestare ad esse. In realtà, sappiamo bene che Francesco tornerà sul Canzoniere moltissime volte, una volta che avrà capito che la maggiore sua grandezza d’animo è quando è autentico per Laura più che quando sfoggia la pur brillante conoscenza dei classici.
“il mio primo giovenile errore” dice del suo amore. L’adolescenza e la prima giovinezza sono età difficili. “Il mio primo giovenile errore” è la “selva oscura” di Dante.
“quand’era in parte altr’uomo da quel ch’i’ sono” continua. La sua conversione, dunque, non è matura e completa, come in Dante.
“del vario stile” anche lo stile è qui “vario”, variabile. Non è più la lirica scopiazzata dai provenzali o quella del “Dolce Stil novo” la cui esperienza si poteva dire oramai sostanzialmente conclusa, bensì uno stile vario tendende a mescolare le varie esperienze contemporanee, rinnovandole.
“fra le vane speranze e ‘l van dolore” – vanità delle vanità, tutto è vanità.
“ove sia chi per prova intenda amore, spero trovar pietà, nonché perdono”, vuol riferirsi a coloro che intendono amore (Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete, aveva detto Dante nel Convivio).
La sensibilità degli eletti da Amore è sempre stretta in un circolo chiuso di persone.
Pietà e perdono, chiede. Pietà credo più in senso moderno che in senso classico; la richiesta del perdono è base “rocciosa” del pentimento. Francesco ci dice chiaramente, a fine verso di fine strofa, che egli ha necessità di essere compiatito.
Un’avversativa, subito: tuttavia vedo ora bene come al popolo tutto (il popolo dei cristiani? dei fiorentini?).
“favola fui gran tempo” sono stato per molto tempo oggetto di pettegolezzo.
Di nuovo e più forte, un’ammissione di colpa e una dichiarazione di vergogna.
Petrarca ci sta conducendo gradualmente tra le balze del proprio cuore.
Infatti dice, unendo i discorsi precedenti, che “del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,\ e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente\ che quanto piace al mondo è breve sogno”.
Il mio giovanile errore ha prodotto la vergogna attuale e il pentimento e il sapere in modo chiaro e incontrovertibile la vanità del piacere del mondo. Una vanità pure dolce, sogno, ma breve.
Forse, a fine sonetto, la conversione a metà del quarto verso si sposta un po’ più verso la verità che verso il mondo.
Non è del tutto convertito, ma la strada della conversione l’ha inboccata.
ERA IL GIORNO CH’AL SOL Sì SCOLORARO
Era il giorno ch'al sol si scoloraro
per la pietà del suo factore i rai,
quando i' fui preso, et non me ne guardai,
ché i be' vostr'occhi, donna, mi legaro.
Tempo non mi parea da far riparo
contra colpi d'Amor: però m'andai
secur, senza sospetto; onde i miei guai
nel commune dolor s'incominciaro.
Trovommi Amor del tutto disarmato
et aperta la via per gli occhi al core,
che di lagrime son fatti uscio et varco:
però al mio parer non li fu honore
ferir me de saetta in quello stato,
a voi armata non mostrar pur l'arco.
Terzo sonetto, Petrarca dà coordinate temporali specifiche: è il 6 Aprile 1327, Venerdì Santo, giorno della Passione di Nostro Signore. Era il giorno ch’al sol sì scoloraro…- rievocazione evangelica del sole che si oscurò.
Io credo che quel “onde i miei guai/ nel commune dolor s’incominciaro” indichi i giorni della Passione di Nostro Signore, come crede qualche critico. In ciò mi conforta il Tempo non mi parea da far riparo…
il fatto nuovo, se si vuole, è dare del “disonorato” ad Amore, ché ha ferito un innocente, un disarmato, e non a lei.
Amore è qui, dunque, un nemico, un nemico vile, si direbbe.
Attenzione! Non sarà sempre così, anzi, il cambiamento del poeta nei confronti di Amore ci darà segno potente e testimonianza autorevole per potere parlare del cambiamento umano-spirituale che pure Petrarca compie nella raccolta.
QUANDO IO MOVO I SOSPIRI A CHIAMAR VOI
5
Quando io movo i sospiri a chiamar voi,
e 'l nome che nel cor mi scrisse Amore,
LAUdando s'incomincia udir di fore
il suon de' primi dolci accenti suoi.
Vostro stato REal, che 'ncontro poi,
raddoppia a l'alta impresa il mio valore;
ma: TAci, grida il fin, ché farle honore
è d'altri homeri soma che da' tuoi.
Cosí LAUdare et REverire insegna
la voce stessa, pur ch'altri vi chiami,
o d'ogni reverenza et d'onor degna:
se non che forse Apollo si disdegna
ch'a parlar de' suoi sempre verdi rami
lingua mortal presumptüosa vegna.
Il gioco della composizione di parole o frasi incrociando parole o frasi della poesia, è un gusto che sa di barocco e che, tuttavia, Petrarca non abbandonerà quasi mai.
Questo gusto per la parola-gioco lo fa, in qualche modo, anticipatore di temi che verranno bene e meglio ritratti nel corso del XVII secolo.
MOVESI IL VECCHIEREL CANUTO E BIANCO
16
Movesi il vecchierel canuto et biancho
del dolce loco ov'à sua età fornita
et da la famigliuola sbigottita
che vede il caro padre venir manco;
indi trahendo poi l'antiquo fianco
per l'extreme giornate di sua vita,
quanto piú pò, col buon voler s'aita,
rotto dagli anni, et dal cammino stanco;
et viene a Roma, seguendo 'l desio,
per mirar la sembianza di colui
ch'ancor lassú nel ciel vedere spera:
cosí, lasso, talor vo cerchand'io,
donna, quanto è possibile, in altrui
la disïata vostra forma vera.
Direttamente confrotabile con la canzone numero 50: Ne la stagion che ‘l ciel rapido inchina, ove si legge de la stancha vecchiarella pellegrina che raddoppia i suoi passi e si affretta a finire il suo giorno di cammino.
Qui c’è la comparazione tra un vecchio pellegrino che si reca a Roma per vedere l’immagine di Cristo (la Sindone? una sindone?) e il poeta (che è a Roma in quel momento – e viene a Roma) che pellegrina nel mondo cercando la disiata vostra forma vera.
Come molti critici hanno notato, tra cui il Baldi, per il canuto vecchierello tutto è dolce (dolce loco, famigliuola, caro padre) eppure egli lascia tutto, patria, famiglia e affetti, per dirigersi a Roma a vedere l’immagine di Cristo Gesù.
Con fatica, certo, ma usa le estreme giornate di sua vita per salvarsi.
Le differenze tra gli undici versi di descrizione del vecchio e i tre di descrizione di sé, sono pregni di caratteri: il vecchierello è stanco a causa del cammino, Petrarca si sente lasso, cioè distrutto, annullato, inconsistente; il vecchierello si conduce a Roma, quanto più po’, col buon voler s’aita, Petrarca cerca la propria donna quanto è possibile senza benignità di volontà, senza grazia; il vecchierello cerca la sembianza di colui ch’ancor lassù nel ciel vedere spera, il poeta cerca in altrui (nelle altre donne) la desiderata e vera forma di Laura; il vecchierello, soprattutto, è imperterrito nel cammino e nel cercare di arrivare a Roma, l’aretino talor vo cercand’io, dice, esprimendo anche l’incostanza che separa ‘l desio del pellegrino da la disiata vostra forma che spera ritrovare.
Anche nella canzone Chiare, fresche e dolci acque e in un altro sonetto, Zefiro torna e ‘l bel tempo rimena, si dirà lasso.
E questo aggettivo ci dà la portata del suo stato mortale.
Sebbene molti danno risalto praticamente solo all’amor sacro del vecchierello e all’amor profano del Petrarca, c’è da rintracciare sin d’ora, proprio nell’alta cifra di questo dissidio interiore, la componente medievale della dottrina sul peccato.
Petrarca è vero che ha perso la fede di Dante, ma più che nella sostituzione dell’amore divino con l’amore profano, tenta una difficile mediazione tra i due opposti: si potrebbe dire che applica il tomismo alla poesia.
Non riesce a liberarsi, né vuole, né chiede, dall’amore per la fede, che rimane, seppure da lontano, la meta vera in mezzo alla vanità del mondo.
Egli non dubita che la Verità sia in Dio, ma che le sue forze e le sue volontà ne meritino la salvezza. La sua è già una fede più gotica, potremmo definirla pre-luterana. Il peccato e l’angoscia per la salvezza, più che la grazia ed il perdono (almeno qui, in questo sonetto).
Che comunque ha una chiusa speranzosa nell’aggettivo vera.
CHIARE, FRESCHE E DOLCI ACQUE
126
Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir' mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior' che la gonna
leggiadra ricoverse
co l'angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole extreme.
S'egli è pur mio destino
e 'l cielo in ciò s'adopra,
ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
et torni l'alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non poria mai in piú riposato porto
né in piú tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata et l'ossa.
Tempo verrà anchor forse
ch'a l'usato soggiorno
torni la fera bella et mansüeta,
et là 'v'ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi; et, o pieta!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l'inspiri
in guisa che sospiri
sí dolcemente che mercé m'impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.
Da' be' rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior' sovra 'l suo grembo;
et ella si sedea
humile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch'oro forbito et perle
eran quel dí a vederle;
qual si posava in terra, et qual su l'onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: - Qui regna Amore. -
Quante volte diss'io
allor pien di spavento:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Cosí carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e 'l dolce riso
m'aveano, et sí diviso
da l'imagine vera,
ch'i' dicea sospirando:
Qui come venn'io, o quando?;
credendo d'esser in ciel, non là dov'era.
Da indi in qua mi piace
questa herba sí, ch'altrove non ò pace.
Se tu avessi ornamenti quant'ài voglia,
poresti arditamente
uscir del boscho, et gir in fra la gente.
SOLO ET PENSOSO I PIù DESERTI CAMPI
35
Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l'arena stampi.
Solitudine e meditazione.
Qui la solitudine è fuga dal popolo (vestigio umano), quello che favoleggiava su di lui, quello che sarà il miglior amico dal pericolo della solitudine (ribaltamento della situazione) in O cameretta che già fosti un porto.
In composizione chiasmica al solo e pensoso ci sono i passi “lenti e tardi” che danno la gravezza della sua condizione.
Cerca i luoghi isolati, per redimersi dalla mondanità e per sfogare il suo Amore in lacrime.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d'alegrezza spenti
di fuor si legge com'io dentro avampi:
Questa fuga in luoghi remoti è uno schermo, un palliativo; non vuole che negli atti privi di allegria la gente veda come dentro di sé avvampi, bruci d’amore.
Il Foscolo se ne ricorderà per quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
sí ch'io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch'è celata altrui.
L’enumerazione degli elementi della natura indica quasi la dolcezza che trasferiscono al poeta, immagine del Creato, immagine della verità del suo stato, contro la non conoscenza degli altri.
Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch'Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co llui.
Tuttavia più cerca di questi luoghi sperduti per star solo più ne ne trova uno che lo allontani dall’unica compagnia che gli rimanga (forzata o desiderata), quella di Amore.
Amore, per me, qui è più un amico, in dialogo, che il nemico di altri sonetti.
PADRE DEL CIEL, DOPO I PERDUTI GIORNI
62
Padre del ciel, dopo i perduti giorni,
dopo le notti vaneggiando spese,
con quel fero desio ch'al cor s'accese,
mirando gli atti per mio mal sí adorni,
piacciati omai col Tuo lume ch'io torni
ad altra vita et a piú belle imprese,
sí ch'avendo le reti indarno tese,
il mio duro adversario se ne scorni.
Or volge, Signor mio, l'undecimo anno
ch'i' fui sommesso al dispietato giogo
che sopra i piú soggetti è piú feroce.
Miserere del mio non degno affanno;
reduci i pensier' vaghi a miglior luogo;
ramenta lor come oggi fusti in croce.
Ottimamente, il Baldi riconosce in questo sonetto-preghiera le due preghiere cristiane per eccellenza, il Padre Nostro e il Miserere, i due vocativi, Padre del ciel e Signor mio – il secondo più confidenziale, più intimo – e la passione degrandante che avvolge il poeta.
Il poeta ha perduti giorni e vaneggiato nelle notti, per quel “fero desio” procuratogli dagli atti per mio mal sì adorni.
Non è Amore, però, il nemico, in questa confessione-richiesta di perdono e misericordia.
Se torniamo al vecchierel e al suo sano desio, questo di Petrarca è feroce, crudele, disposto al male in atti soavi e adorni, gentili e cortesi.
“ch’io torni ad altra vita” chiede una vita nuova, Petrarca, la chiede perché si rende conto che le sue reti sono vuote (ricordo evangelico dei primi discepoli chiamati da Gesù che pescavano e, più, di quando Pietro e gli Apostoli tornano a mani vuote e Gesù consiglia loro di buttare la rete dall’altra parte!).
Il duro avversario, si augura Petrarca, dovrà scornarsene, piccarsi.
Più confidente la prima terzina: Signore mio è l’undicesimo anno, dice; chiama il suo fero desio come giogo feroce. Si è sempre sentito schiavo (prima credeva che fosse Amore poi ha scoperto che era inganno).
Faccio notare il contrasto tra giogo e croce.
Miserere di me, gridava Dante, Miserere del mio non degno affanno, chiede Petrarca.
ERANO I CAPEI D’ORO A L’AURA SPARSI
90
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avolgea,
e 'l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch'or ne son sí scarsi;
Se Baldi scrive che la datazione è incerta e forse si può fare risalire la poesia al 1342 io credo che l’emistichio del quarto verso “Ch’or ne son sì scarsi” (soggetto gli occhi, di cose del vago lume che oltre misura ardeva) deve farlo dire un sonetto composto post mortem perché scarsi io intendo per privi non per mancanti, diminuiti. In ciò conforterebbe anche il tono elegiaco della prima quartina. Erano… avolgea… ardea…
Dunque, sarebbe da datare dopo il 19 Maggio 1348 (data della morte di Laura).
e 'l viso di pietosi color' farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'ésca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di súbito arsi?
qual meraviglia se di subito arsi è un verso poco musicale e sinceramente non all’altezza di Francesco. Ora, avrà forse voluto renderlo così lento lento e così poco soave, probabilmente, ma basta un semplice “sì” modale in luogo del “di” della pastosa locuzione per renderlo più digeribile, ma tant’è…
Non era l'andar suo cosa mortale,
ma d'angelica forma; et le parole
sonavan altro, che pur voce humana.
Qui Petrarca è stilnovista, ricorda il Tanto gentile dantesco.
Uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch'i' vidi: et se non fosse or tale,
piagha per allentar d'arco non sana.
Apparizione miracolosa, che nel ricordo diventa salvifica (stilnovistica) e che rende giustizia di quell’ipotesi di datazione poc’anzi avanzata.
CHIARE, FRESCHE E DOLCI ACQUE
126
Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir' mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior' che la gonna
leggiadra ricoverse
co l'angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole extreme.
Indubbiamente uno dei locus amoenus più idillici della letteratura, l’incipit di questa celebre e molto studiata canzone è sicuramente un esempio efficace di mescolanza e di riassunzione di significato di alcuni dei termini più usati dalla letteratura anteriore: la gonna è leggiadra (ricordarsi di Dante e di come Leggiadria fosse nobiltà d’animo), gentile è il ramo, belle le membra, il fianco e gli occhi, sacra l’aria, angelico il seno (se ne è discusso moltissimo, moltissimi con poca poesia!). Insomma c’è una sorta di sacralizzazione del profano, sembrerebbe. Si potrebbe meglio vedere, a mio giudizio, eleggendo le cose mortali (e futili di per sé se non fossero oggetto di ricordo amoroso) a ricordo doloroso ma imperituro, anzi rinnovabile dalla memoria.
S'egli è pur mio destino
e 'l cielo in ciò s'adopra,
ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
et torni l'alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non poria mai in piú riposato porto
né in piú tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata et l'ossa.
Tempo verrà anchor forse
ch'a l'usato soggiorno
torni la fera bella et mansüeta,
et là 'v'ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi; et, o pieta!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l'inspiri
in guisa che sospiri
sí dolcemente che mercé m'impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.
Da' be' rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior' sovra 'l suo grembo;
et ella si sedea
humile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch'oro forbito et perle
eran quel dí a vederle;
qual si posava in terra, et qual su l'onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: - Qui regna Amore. -
L’unica speranza che porta nel dubbioso passo della morte (dispera della salvezza, Francesco) è che l’anima ritorni nuda (vera, spoglia del superfluo) al proprio albergo (al Regno dei Cieli dai quali è chiamata).
Il suo spirito (in opposizione all’anima?) è lasso, distrutto, disvelto, e altro non potrebbe sperare che miglior porto di riposo o tranquilla fossa che gli faccia fuggire la carne travagliata e l’ossa. La morte, dunque, lo scamperà dalla carnalità e dai pensieri profani.
Il pensiero della morte è ancora una volta un’ossessiva ripetizione del tema della fugacità e la fuga dalle cose vane è l’unica speranza di salvezza.
Tempo verrà… la sua speranza si apre in un tono quasi profetico, sicuramente augurale.
Verrà il tempo che ancora forse a questo abituale luogo di svago tornerà la bella e mansueta fiera (si noti la dicotomia) e laddove mi scorse nel benedetto giorno volga la vista disiosa e lieta…
Ancora una volta il desiderio che ha, nell’accezione del poeta, diversissime sfumature.
L’immagine poi di Laura piangente che forza il cielo ad accettare la sua anima, l’anima di Petrarca, è una fantasia pietosa nella mente di lui. La sorte volle che avvenisse, ciò, ma al contrario.
Infine, ritorna a descrivere il giorno in cui vide Laura, la pioggia di fiori sul grembo, l’umiltà di lei, seduta sul prato, ricoperta de l’amoroso nembo.
L’escalation continua e si enumerano i fiori, le treccie bionde, la terra e le onde, fino al vago errore che a lui sembra sussurri: “Qui regna Amore”.
Quante volte diss'io
allor pien di spavento:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Cosí carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e 'l dolce riso
m'aveano, et sí diviso
da l'imagine vera,
ch'i' dicea sospirando:
Qui come venn'io, o quando?;
credendo d'esser in ciel, non là dov'era.
Da indi in qua mi piace
questa herba sí, ch'altrove non ò pace.
Petrarca torna alla lezione dello stilnovismo: “Costei per fermo nacque in paradiso”.
E allora gli aggettivi si fanno più soavi: il portamento è divino. Il volto, le parole e il dolce riso, dice Petrarca, mi avevano così diviso (confuso) e allontanato dalla sua vera immagine … insomma assistiamo alla trasfigurazione di Laura, come era stato in precedenza per Beatrice.
Una trasfigurazione che ha i caratteri del sacro.
Se riferiamo il vero “da l’imagine vera” a quella “disiata vostra forma vera” del sonetto Movesi ìl vecchierel canuto e bianco, troviamo, dunque, che l’immagine vera deve essere il corpo di Laura, la terrestrità di Laura, la Laura in carne ed ossa (carne ed ossa che in questa canzone, in fine della prima strofa, Petrarca afferma risoluto di volere fuggire!).
Davanti a questa trasfigurazione (della memoria, è un ricordo di trasfigurazione) egli, il poeta, è preso da smarrimento, crede di essere in cielo.
Da quel momento, infatti, ama quel luogo, quel prato, perché altrove non ho pace, dice, perché è l’unico posto paradisiaco che conosce.
Qui e in pochissimi altri luoghi, Laura è angelicata (abbenché l’aggettivo sia usato in questa canzone semplicemente per riferirsi al seno, segno evidente di come egli non riesca a trasformarsi completamente).
Se tu avessi ornamenti quant'ài voglia,
poresti arditamente
uscir del boscho, et gir in fra la gente.
Bosco, non selva. Luogo ameno, non di peccato. Luogo di trasfigurazione, Tabor, non di perdizione, tuttavia.
ITALIA MIA, BENCHé IL PARLAR SIA INDARNO
128
Italia mia, benché 'l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,
piacemi almen che ' miei sospir' sian quali
spera 'l Tevero et l'Arno,
e 'l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Si rivolge all’Italia, in anastrofe, Francesco Petrarca, poeta oramai noto e acclamato.
Siamo nel 1345, in occasione di una guerra per la conquista di Parma che vede Obizzo d’Este contrapposto a Filippino Gonzaga, Luchino Visconti e le truppe mercenarie germaniche di quest’ultimo.
Ricordiamo che questi sono gli anni delle prime importanti compagnie di ventura, che avranno molto seguito nei anni a seguire.
L’Italia è una fanciulla dal corpo maciullato dai colpi.
L’incipit è già una consapevole dichiarazione di sconfitta, le parole non servono a niente, né le poesie. Una dichiarazione molto forte, quella di Petrarca, anche in questo differente da Dante.
Nonostante non servano a cambiare la Storia sono le parole che i popoli italici si aspettano (popoli italiani personificati nei vari fiumi)
Di questo incipit si ricorderanno, almeno, Leopardi e Ungaretti.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
Vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion' che crudel guerra;
e i cor', che 'ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e 'ntenerisci et snoda;
ivi fa che 'l Tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s'oda.
Preghiera breve dentro la canzone, si rivolge al Signore così come Gli si era rivolto Dante.
“Dilecto almo paese” del Signore è l’Italia.
Vedi, Signor cortese, per quali futili motivi si fa crudele guerra.
Se Marte indura e serra (chiude) i cuori, Tu, Signore, chiede Petrarca, intereisci e snoda (sciogli i nodi – dei cuori).
Il paganesimo dei signori della guerra è contrapposto alla Pietà del Rettore del Cielo.
La tua verità, dice ancora, qualunque sia il mio valore, attraverso la mia lingua (la mia parola) fa che giunga lontano, che si oda.
Al lettore attento, dunque, si manifesterà chiaro a quale punto di distinzione, in questa canzone, la polemica dicotomia tra religione e mondanità sia giunta la definizione dell’animo dell’aretino.
Qui, egli, già compie una scissione netta tra la vanità della parola in sé e la Parola di pace detta per mezzo e con la forza e per volontà del Signore, unica possibilità di pace e speranza.
Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché 'l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga:
poco vedete, et parvi veder molto,
ché 'n cor venale amor cercate o fede.
Qual piú gente possede,
colui è piú da' suoi nemici avolto.
O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n'avene, or chi fia che ne scampi?
Petrarca ora si rivolge direttamente ai signori d’Italia (soprattutto ai tre coinvolti, ma a tutti).
Notiamo che delle belle contrade nulla pietà par che vi stringa; la nulla pietà dei signori è contrapposta alla Pietà del Signore.
“che fan qui tante pellegrine spade?” è domanda che rimanda all’ironia di Guittone in quell’altra straordinaria canzone politica che è Ahi, lasso or è stagion di doler tanto.
Preso di mira è il vano errore dei signori, cioè di avere e possedere e farsi nemici i popoli (tiranneggiandoli) e chiamare le truppe mercenarie germaniche (cosa che Machiavelli condannerà).
Anche la politica fa parte delle vanità dell’uomo, ma specie quella italiana, che, come si vede qui, è fatua, effimera e soprattutto non porta a niente.
Il paragone tra il diluvio (memoria di quello universale? giudizio di Dio?) che infesta le pianure, il paragone tra il diluvio e le truppe mercenarie venute da deserti strani è fecondo di letture.
Ben provide Natura al nostro stato,
quando de l'Alpi schermo
pose fra noi et la tedesca rabbia;
ma 'l desir cieco, e 'ncontr'al suo ben fermo,
s'è poi tanto ingegnato,
ch'al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge et mansüete gregge
s'annidan sí che sempre il miglior geme:
et è questo del seme,
per piú dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sí 'l fianco,
che memoria de l'opra ancho non langue,
quando assetato et stanco
non piú bevve del fiume acqua che sangue.
La Natura ha protetto l’Italia dotandola delle Alpi, come schermo dalla rabbia dei Tedeschi, ma all’Italia è stata procurata scabbia (altra malattia) per il comportamento dei signori.
Ora, quello che fu uno schermo, una parete divisoria tra l’Italia e la Germania è un recinto, anzi una gabbia dove bestie selvagge e mansueto gregge convivono: “sì che sempre il miglior geme”.
“Popol senza legge” in rima equivoca con il “legge” verbo successivo.
E si arriva a Mario e alla rievocazione malinconica di quel passato glorioso che fu Roma antica.
Cesare taccio che per ogni piaggia
fece l'erbe sanguigne
di lor vene, ove 'l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che 'l cielo in odio n'aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise.
Vostre voglie divise
guastan del mondo la piú bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, et le fortune afflicte et sparte
perseguire, e 'n disparte
cercar gente et gradire,
che sparga 'l sangue et venda l'alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d'altrui, né per disprezzo.
La rievocazione continua con la preterizione (dire di non voler dire una cosa che intanto si dice…) Cesare taccio…
Vostre voglie divise guastan del mondo la più bella parte rimprovera ancora.
Questa canzone è tutta un doloroso atto di coscienza di una politica che era ed è marcia, votata ad un finto bene personale (o benessere) e al male comune.
In qualche modo l’elenco delle pestifere abitudini dei signori del tempo è un escplicito elenco di antivalori cavallereschi, che sono da tempo tramontati e di cui si rimpiange la dissoluzione.
Poi Petrarca ci tiene a sottolineare che “io parlo per ver dire/ non per odio d’altrui, né per disprezzo”; vuol dire, io dico queste cose non odiando Tizio piuttosto che Caio, non sono di parte, non rimprovero ai signori di pensare a sé stessi e poi mi vendo a uno di loro per attaccare un suo nemico; il mio sguardo non è quello del mercenario; io cerco la verità.
Né v'accorgete anchor per tante prove
del bavarico inganno
ch'alzando il dito colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che 'l danno;
ma 'l vostro sangue piove
piú largamente, ch'altr'ira vi sferza.
Da la matina a terza
di voi pensate, et vederete come
tien caro altrui che tien sé cosí vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano senza soggetto:
ché 'l furor de lassú, gente ritrosa,
vincerne d'intellecto,
peccato è nostro, et non natural cosa.
E qui il Petrarca sembra dare una lettura del tutto diversa delle cose: non c’è la millantata invincibilità dei germanici a spiegare l’uso delle truppe mercenarie ma il bavarico inganno, l’inganno chiaro di truppe che fanno finta di guerreggiare per un padrone e che scherzano con la morte, pensano solo ai soldi e a portare a casa la pelle, senza intenzione di combattere sul serio per questo o quello.
Il fatto che i bavaresi ci prendano in giro (che è peggio questo del danno) è nostro difetto e non una cosa naturale (Ché la natura ha provvisto di intelletto ugualmente anche gli Italiani! O forse di maggiore intelletto gli Italiani?).
Non è questo 'l terren ch'i' toccai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sí dolcemente?
Non è questa la patria in ch'io mi fido,
madre benigna et pia,
che copre l'un et l'altro mio parente?
Perdio, questo la mente
talor vi mova, et con pietà guardate
le lagrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo
dopo Dio spera; et pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertú contra furore
prenderà l'arme, et fia 'l combatter corto:
ché l'antiquo valore
ne gli italici cor' non è anchor morto.
Passo importante di per sé, l’esortazione ai signori italiani a prendere le armi e cacciare gli stranieri, ma reso ancora più famoso perché inserito vertù contra furore… nella chiusa del Principe dal Machiavelli. Anno del Signore 1513.
Signor', mirate come 'l tempo vola,
et sí come la vita
fugge, et la morte n'è sovra le spalle.
Voi siete or qui; pensate a la partita:
ché l'alma ignuda et sola
conven ch'arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
piacciavi porre giú l'odio et lo sdegno,
vènti contrari a la vita serena;
et quel che 'n altrui pena
tempo si spende, in qualche acto piú degno
o di mano o d'ingegno,
in qualche bella lode,
in qualche honesto studio si converta:
cosí qua giú si gode,
et la strada del ciel si trova aperta.
Seconda esortazione ai signori italiani, questa volta non bellica, ma artistica: per una vita serena bisogna deporre l’odio e lo sdegno.
Le alte opere o di mano o d’ingegno posso e devono essere i motivi di vanto dei signori. La Storia ascolterà Petrarca, se il mecenatismo del Quattrocento contribuirà a rendere l’Italia, nuovamente, il centro del mondo.
Questo discorso è giustificato dalla premessa, la brevità di vita, l’incompensa di morte…
Canzone, io t'ammonisco
che tua ragion cortesemente dica,
perché fra gente altera ir ti convene,
et le voglie son piene
già de l'usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
fra' magnanimi pochi a chi 'l ben piace.
Di' lor: - Chi m'assicura?
I' vo gridando: Pace, pace, pace. –
La chiusa, classica, si rivolge alla canzone, la si ammonisce di cercare gente degna a cui parlare. “fra’ magnanimi pochi a chi ‘l ben piace” si rivolge, infatti, essa. Il suo obiettivo è parlare di pace, di un concetto di pace autentico e vero perché rafforzato: pace, pace, pace!
O CAMERETTA CHE Già FOSTI UN PORTO
234
O cameretta che già fosti un porto
a le gravi tempeste mie diürne,
fonte se' or di lagrime nocturne,
che 'l dí celate per vergogna porto.
Per anni la cameretta era il dolce rifugio in cui stare solo per fuggire gli sguardi indiscreti e i pettegolezzi della gente.
O letticciuol che requie eri et conforto
in tanti affanni, di che dogliose urne
ti bagna Amor, con quelle mani eburne,
solo ver 'me crudeli a sí gran torto!
Ancora sul dolore che ha provato in quella camera.
Né pur il mio secreto e 'l mio riposo
fuggo, ma piú me stesso e 'l mio pensero,
che, seguendol, talor levommi a volo;
Ora non il segreto (amore per Laura) né il riposo che non desidera lo allontana dalla cameretta, ma il pensiero che gli fa pensare a lei.
e 'l vulgo a me nemico et odïoso
(ch 'l pensò mai?) per mio refugio chero:
tal paura ò di ritrovarmi solo.
Il volgo nemico e odioso per mio rifugio chiedo, ha paura a resta in camera da solo, per quei pensieri che lo atterrano.
Forse quello stesso stacco che avvertiva il conte Leopardi per i recanatesi era suggestionato dalla lettura di tanto sonetto. “riconciliativo” e forse la donzelletta viene anche, un po’, da qui.
LA VITA FUGGE, ET NON S’ARRESTA UNA HORA
272
La vita fugge, et non s'arresta una hora,
et la morte vien dietro a gran giornate,
et le cose presenti et le passate
mi dànno guerra, et le future anchora;
La vita è breve e fugace, fugge…
La morte viene dopo grandi giornate.
Egli ieri, come oggi come domani, sente la guerra (personale e comune) che gli sta intorno. Tutto lo agita.
e 'l rimembrare et l'aspettar m'accora,
or quinci or quindi, sí che 'n veritate,
se non ch'i' ò di me stesso pietate,
i' sarei già di questi penser' fòra.
Il riscontrato piacere di farla finita soggiace al sentimento di pietà verso sé stesso.
Tornami avanti, s'alcun dolce mai
ebbe 'l cor tristo; et poi da l'altra parte
veggio al mio navigar turbati i vènti;
Questo sonetto, tanto introspettivo quanto descrittivo, sarà alla base di quel gusto dell’autobiografismo alla Alfieri e alla Foscolo…
veggio fortuna in porto, et stanco omai
il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.
“Il mio nocchier” – nave sanza nocchiero in gran tempesta.
302
Levommi il mio penser in parte ov'era
quella ch'io cerco, et non ritrovo in terra:
ivi, fra lor che 'l terzo cerchio serra,
la rividi piú bella et meno altera.
Per man mi prese, et disse: - In questa spera
sarai anchor meco, se 'l desir non erra:
i' so' colei che ti die' tanta guerra,
et compie' mia giornata inanzi sera.
Mio ben non cape in intelletto humano:
te solo aspetto, et quel che tanto amasti
e là giuso è rimaso, il mio bel velo. -
Deh perché tacque, et allargò la mano?
Ch'al suon de' detti sí pietosi et casti
poco mancò ch'io non rimasi in cielo.
Altro sonetto stilnovista e sulla falsariga di Dante.
ZEPHIRO TORNA, E ‘L BEL TEMPO RIMENA
310
Zephiro torna, e 'l bel tempo rimena,
e i fiori et l'erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Philomena,
et primavera candida et vermiglia.
Mito greco delle due sorelle Progne e Filomena.
Ambientazione primaverile.
Allegrezza e ampiezza della strofa.
Ridono i prati, e 'l ciel si rasserena;
Giove s'allegra di mirar sua figlia;
l'aria et l'acqua et la terra è d'amor piena;
ogni animal d'amar si riconsiglia.
Scena che continua ad essere bucolica, incantata.
Ma per me, lasso, tornano i piú gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch'al ciel se ne portò le chiavi;
Cambio registro, repentinamente. Si dice lasso, racconta i suoi gravi sospiri.
et cantar augelletti, et fiorir piagge,
e 'n belle donne honeste atti soavi
sono un deserto, et fere aspre et selvagge.
Contrapposizione, infine, nella stessa strofa di due versi con immagini primaverili e l’ultimo con l’inverno del suo cuore che trasforma le bellezze della primavera in nemici e deserto.
Ultimo aggiornamento (Giovedì 06 Settembre 2012 06:36)