DANTE, L'INVENZIONE DELLA LINGUISTICA E IL RINNOVAMENTO DELLA TRATTATISTICA POLITICA ovvero una lettura personale e discutibile del DE VULGARI ELOQUENTIA e del MONARCHIA
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DE VULGARI ELOQUENTIA
Riferisco la datazione riportata in Asor Rosa, 1303- Febbraio 1305. Il De vulgari eloquentia sarebbe stato scritto, dunque, contemporaneamente al Convivio.
Opera, questa, che ha titolo e corpo latino: stranezza, parlare del volgare in latino, ma è giustificata dal fatto che i destinatari di tale elogio del volgare non poteva essere il popolo, bensì i cortigiani di tutta Italia e i funzionari dei Comuni, che, usi al latino, avrebbero dovuto apprezzare, invece, le qualità della nuova lingua nazionale che Dante propugnava. La questione della lingua, aperta con quest’opera, rimarrà centrale per almeno cinquecento anni.
Dante indirizza la discussione poiché “sceglie” di scrivere le sue opere più note appunto nella lingua del volgo, ma di un volgo, lo vedremo, che risponderà a determinate caratteristiche.
Il filosofo-filologo del Convivio lascia spazio al linguista: Dante dimostra così di avere una vasta cultura, pronta ad avventurarsi in molteplici campi sempre con una serenità che sconcerta.
Parlando delle lingue del mondo e trovando nell’ebraico la prima lingua e nella Torre di Babele l’origine della differenziazione delle lingue nel mondo, (tra cui la lingua divisa in tre rami – trhyfarium – l’ingua d’oc-del sì- d’oil).
LIBRO PRIMO
Capitolo nono
Dante è acutissimo nel considerare que quidem gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis ydemptitas diversibus temporibus atque locis (che essa grammatica altro non è che l’identità della locuzione inalterabile nei diversi tempi e luoghi).
Capitolo dodicesimo
Tra tutti i volgari, Dante sceglie quello che honorabilius atque honorificentius breviter seligamus (scegliamo quello più onorevole e onorifico).
…eo quod quicquid poetantus Ytali sicilianum vocatur (tutto ciò che è poeticamente italico è detto siciliano).
Dante cita due canzoni di Guido delle Colonne:
Anchor che l’aigua per lo foco lassi
Amor, che lungiamente m’ai menato
Però, si capisce, la trattazione dell’individuazione di un certo volgare, più colto e curato di altri, passa necessariamente attraverso la stretta connessione della cultura di un determinato luogo con la politica. E se Dante ancora una volta si lancia in obprobrium ytalorum principum… qui non heroico more, sed plebeio secuntur superbiam, c’è da dire che elogia, e molto, la casa di Svevia.
Voglio sottolineare, in questo luogo e in questo modo, la maturazione umana che Dante ha avuto.
Abbenché Federico abbia osteggiato il Papato (o il Papato Federico, sono punti di vista) e abbenché Manfredi, con la nota battaglia di Montaperti aveva lasciato Firenze e la maggior parte della toscana in mano agli imperiali (ricordate la mestizia e l’ironia di Guittone?), Dante capisce e approva la grandezza umana di costoro, contro la corruzione, l’individualismo e la mediocrità dei successori (specie degli Angioini, ma di tutti).
… Siquidem illustres heroes, Fredericus cesar et bene genitus eius Manfredus, nobilitatem ac rectitudinem sue forme pandentes, donec fortuna permisit, humana secuti sunt, brutalia dedignantes.
(Così che gli illustri eroi, il cesare Federico e il suo buon nato Manfredi, la nobiltà e rettitudine della loro anima manifestando, finché la fortuna lo ha permesso, hanno seguito la natura umana, sdegnando la natura brutale (animale).
Apuli quoque vel a sui acerbitate vel finitimorum suorum contiguitate, qui Romani et Marchiani sunt, turpiter barbarizant; dicunt enim:
Volzera che chiangesse lo quatraro.
Sed quamvis terrigene Apuli loquantur obscene comuniter, prefulgentes eorum quidam polite locuti sunt, vocabula curialiora in suis cantionibus compilantes, ut manifeste apparet eorum dicta perspiscientibus, ut puta
Madonna dir vi voglio
per fino amore vo sì lentamente.
(Gli Apuli, dunque, o per propria acerbità (durezza) o per la contiguità con i propri vicini, che sono i Romani e i Marchigiani, “turpiter barbarizant” parlano un turpiloquio barbarico. Dicono infatti:
Vorrei che piangesse il ragazzo.
Ma perché gli indigeni Apuli parliano comunemente in modo osceno, rifulgenti tra loro ci sono alcuni uomini dalle pulite parole, che hanno compilato (inserito) vocaboli curiali nei propri canti, perché manifestatamente apparissero i detti loro perspecienti, poiché hanno detto
Madonna dire vi voglio,
per fino amore vado così lentamente.
Interessante è considerare, a questo punto, ciò che nota Asor Rosa. Elogiando la scuola siciliana, ma non il siciliano, né l’apulo, (che non ritiene lingue adatte alla nobiltà di lingua nazionale) Dante afferma cum eloquentes indigenas ostenderimus a proprio divertisse, ché gli indigeni eloquenti si sono dipartiti dal loro modo proprio (di parlare).
Asor Rosa, dicevamo, ci fa notare che i siciliani che Dante studia e ammira sono quelli giunti a lui per i siculo-toscani, in rimaneggiamenti toscaneggianti, dato che è pressoché impossibile (se consideriamo la lingua del Protonotaro, l’unica rimasta originale, che un Rinaldo d’Aquino scrivesse quel verso predetto Madonna dir vi voglio… almeno non in questa perfetta foggia).
Che il siculo e l’apulo, invece, fossero indigeribili, se c’è qualcuno che conosce il primo o il secondo, non possiamo che concordare con il Sommo.
Il trattato si interrompe così, improvvisamente, al quattordicesimo capitolo del secondo libro.
Molti altri, come detto, avrebbero scritto di lingua, ma il solco praticato da Dante e le mura da lui innalzate reggeranno ai secoli e diverranno solidissime prove della sua magica e formidabile, oltre che profetica, ispirazione.
Il volgare uso da Dante era già italiano e l’italiano è, si può dire, una sua invenzione, una sorta di mescolanza sapiente, su un telaio fiorentino-toscano, di termini aulici provenienti dalle corti più illustri e ingegnose della penisola. Si può dire che tutti hanno contribuito alla nascita dell’italiano, concludendo il lavoro dantesco che in realtà non si potrà mai chiudere, essendo la lingua, come egli ha ben detto, un fattore umano e come ogni fattore umano mutevole.
MONARCHIA
Sempre in Asor Rosa, che cita la critica di Ricci, è possibile avere un riferimento generale di un’opera la cui datazione è complessa.
Dante scrive nella Commedia, sicut in Paradiso Comedie iam dixi (I, XII, 6) e questo ben vale per farla considerare un’opera tarda, della maturità, un testamento politico alle generazioni a venire, quando Dante non solo è già famosissimo perché ha completato la Commedia, il capolavoro omaggio alla sua conversione umana e spirituale e omaggio a quella Beatrice che l’aveva innamorato tempo prima, ma anche era un esule che non accettava punto di ritornare a Firenze con i mezzi meschini che gli venivano proposti e il riconoscimento di colpe che sentiva di non avere commesso.
Pare, dunque, che Dante voglia fare il Priore di Firenza dal suo studiolo di Ravenna o che voglia essere un angelico custode di un Imperatore avvenire, un Imperatore futuro che, come egli intende, pieno di virtù e devoto tanto a Dio e al suo popolo da reggere il mondo in fede e giustizia.
Sappiamo che questo sincretismo ideale-pratica non avverrà. La storia dolorosissima d’Italia resta agli studiosi tutti (a coloro che vogliano studiare onestamente e rettamente) resta a monito di quanto odio di parte e ignoranza putrida possano perpetuare divisioni e interessi.
Dante, anche per questo, manterrà la sua anima immortale, presso di noi e lassù, dove è salito, dove nessuno più è riuscito a guardare con lo stesso sguardo di poeta.
Il Monarchia, dunque, “è certamente l’opera «minore» più organica dell’Alighieri” (Asor Rosa).
Con essa Dante dà principio ad un nuovo filone letterario, in Italia, la trattatistica politica.
Rinnovatore delle rime e del poema didascalico, inventore della linguistica e della trattatistica politica, come detto, il Poeta è il centro della letteratura del nostro Paese in maniera così imperitura e prolifica che tutti, anche coloro che non ne condividono le idee, si sono confrontati con lui.
LIBRO PRIMO
Capitolo Primo
1. Omnium hominum quos ad amorem veritatis natura superior impressit hoc maxime interesse videtur: ut, quemadmodum de labore antiquorum ditati sunt, ita et ipsi posteris prolaborent, quatenus ab eis posteritas habeat quo ditetur.
( Tutti gli uomini i quali dall’amore della verità la natura superiore chiamò, questo massimemente deve interessare, penso: che, al modo che dal lavoro degli antichi sono stati guidati, così anche essi stessi per i posteri lavorino, così che dai propri posteri siano detti guide).
Nel proemio di un’opera di idealizzazione-concretazione politica, indicare nella tradizione da recuperare e da continuare il cardine del fine che dovrebbe muovere tutti gli uomini spinti dall’amore per la verità (gli uomini di buona volontà- in altro idioma) si può considerare un’operazione programmatica irreversibile.
Se si pensa al proemio che duecento anni dopo animerà le tanto discusse e controverse parole del fondatore della politica moderna, il Machiavelli, si capirà come “la politica antica” dantesca fosse non solo un’utopia al tramonto (come la vulgata della quasi totalità di critici e lettori dell’opera dantesca ranocchiamente gracida), bensì una più alta, la più alta e chiara sistemazione dottrinale di principi immutabili ed universali i quali devono attraversare la società umana in ogni dove e in ogni tempo.
Insomma, se l’orizzonte politico di Dante è sconfinato (non solo perché parla di un’epoca in cui, per svuotate che fossero, le parole “Impero” e/o “Papato” rimandava a un’idea universale che assommasse tante nazioni e società in un’unica civiltà), l’orizzonte politico di Machiavelli (il quale fa continuo riferimento a vicende a sé contemporanee, dedica molto spazio alla parabola ascendente del Valentino, esalta per lo più gli esempi di scelleratezza pseudo-nazionali) si può dire recinto dei valori dell’agone politico validi più per una situazione politica cisalpina e che altrove perdono necessariamente il proprio carattere di acume e di diligente e sottile analisi dei rapporti tra il Principe stesso e i propri sudditi, parlando di realtà diverse. Insomma, nel Cinquecento, dire “principe” in Germania, Francia o nei vari regnucoli italici aveva raggiunto un grado talmente alto di differenziazione che il credito vantato dalla pur maggiore autorevole opera di trattazione politica, perde il suo valore.
Si dirà, ma il Machiavelli fa esempi toscano-italiani ambendo indicare la nuova spregiudicatezza politica nata dall’idea della modernità e dell’uomo moderno; ed io, a costoro, risponderò che la nequizia non è nata certo col Valentino o con Alessandro VI, ché se essi vogliono esempi di malvagità ancora più oscura, se non basterebbero le invasioni barbariche, Nerone o le molteplici guerre civili dell’epoca della Repubblica Romana, potrei citare le guerre fratricide degli eredi di Alessandro o le lunghe lotte delle polis greche per conquistare una vallata in più. E a ritroso andando si troverebbero, specie nella Bibbia, esempi talmente violenti del potere che pur di aumentare diventa feroce e animalesco, che la situazione sfuggirebbe di mano; per coloro che si fossero, invece, altresì convinti della bontà della mia asserzione, e cioè che la nequizia politica non nasce nel Cinquecento, andrò avanti.
Scopriremo che il discorso di Machiavelli non è inutile ma vano: cioè non è che non abbia un proprio uso, che può anche portare benifici, anzi, ché sicuramente porta benefici conoscere i meccanismi del potere, ma è vano, cioè è condizionato dall’oggi, ha un valore effimero, determinato da certe condizioni politico-culturali e non valido o non pienamente valido in altre.
Prendiamo la dedica a Lorenzo il Magnifico:
Sogliono, el più delle volte, coloro che desiderano acquistare grazia appresso uno Principe,
farseli incontro con quelle cose che infra le loro abbino più care, o delle quali vegghino lui più
delettarsi; donde si vede molte volte essere loro presentati cavalli, arme, drappi d'oro, prete preziose
e simili ornamenti, degni della grandezza di quelli. Desiderando io adunque, offerirmi, alla vostra
Magnificenzia con qualche testimone della servitù mia verso di quella, non ho trovato intra la mia
suppellettile cosa, quale io abbia più cara o tanto esístimi quanto la cognizione delle azioni delli
uomini grandi, imparata con una lunga esperienzia delle cose moderne et una continua lezione delle
antique: le quali avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate et esaminate, et ora in uno
piccolo volume ridotte, mando alla Magnificenzia Vostra.
(Machiavelli – Dedica a Lorenzo il Magnifico da Il principe 1513)
Si vede in ciò che la cultura è già diventata ciò che non avrebbe in nessun modo dovuto essere: succube del potere.
Dante ne paventava nel Convivio, come s’è visto, e ciò che paventava per ignominia di uomini si è avverato.
Machiavelli non è libero di scrivere al “principe” se non in maniera ossequiosa.
L’esperienza comunale è stata sconfitta, Impero e Papato sono fantasmi del passato.
Ora c’è un principe locale in lotta con un altro principe locale e le penne al loro servizio.
Dante, sebbene omaggi Cangrande della Scala, suo “protettore”, non si perde in così laute parole in favore di esso. Rispettoso e cordiale, riconoscente e onesto non si umilia davanti a lui.
A tutto modo, questa è solo la dedica, si prenda il vero e proprio incipit:
Tutti li stati, tutti e' dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e
sono o repubbliche o principati. E' principati sono o ereditarii, de' quali el sangue del loro signore ne
sia suto lungo tempo principe, o e' sono nuovi. E' nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano a
Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista,
come è el regno di Napoli al re di Spagna. Sono questi dominii cosí acquistati, o consueti a vivere
sotto uno principe,o usi ad essere liberi; et acquistonsi, o con le armi d'altri o con le proprie, o per
fortuna o per virtù.
La trattazione è pure specifica e moderna, vorrebbe avere carattere universale, ma si noterà che nel programma di Machiavelli (che comunque cita come prima forma di governo le “repubbliche”) c’è una sottigliezza critica ammirevole, non una dichiarazione di principio autorevole.
Insomma, si studia ciò che è non ciò che dovrebbe essere, per dirla in una.
E se questo apre sicuramente a interessantissime considerazioni, come è degno dire del Machievelli trattatista, non di meno viene meno quell’assunto che è richiesto ad ogni buona oepra che voglia proporsi come valida ascensione morale dell’uomo a principi etici che migliorino la sua e l’altrui vita.
Altrimenti diventa una cronaca meccanica e una leziosa spiegazione ex catedra dei moventi e delle sfaccettature del potere, le leve che si muovono, come e’ si fanno, cosa producono e da cosa e’ sono cagionate…
Partiti da questa profonda differenza tra il difensore dell’idea della politica come universale e quella della politica come “scienza” e “meccanismo in fieri”.
2. Est ergo temporalis Monarchia, quam dicunt ‘Imperium’, unicus principatus et
super omnes in tempore vel in hiis et super hiis que tempore mensurantur.
(è dunque la Monarchia temporale, che dicono “Impero”, un unico principato…)
La monarchia temporale (gli si riconosce un carattere di cogenza, di attualità storica e non di dimensione eterna!) è un unico principato…
La teoria politica di Dante è chiarissima: non divisione ma unità.
E che questa teoria sia supportata da principi saldissimi, in capo ai quali ogni principe deve essere soggetto, è detto in questo bellissimo passo.
Unde manifestum est quod pax universalis est optimum eorum que ad nostram beatitudinem ordinantur.
3. Hinc est quod pastoribus de sursum sonuit non divitie, non voluptates, non honores, non longitudo vite, non sanitas, non robur, non pulcritudo, sed pax;
(Perché è manifesto che la pace univerale è il più alto di quelli (dei beni) che è stata ordinata alla nostra felicità -beatitudinem-. Per ciò ai pastori la voce suonò (annunziò) non ricchezze, non piaceri, non onori, non longevità, non salute, non forza, non bellezza, ma pace).
Avanti Dante spiega come sia indispensabile l’Impero. Come dice Aristotele nella Politica, che se ci sono degli elementi ordinati ad un fine uno deve comandare gli altri, così il pater familias comanda gli altri per il raggiungimento dell’armonia…
L’impero, dunque, non è potere, autorità o esercito, ma guida pratica delle nazioni e delle genti.
Così una città ha il fine del benessere tra i cittadini e conviene ad essa un ordinamento politico buono, così il regno, stesso obiettivo con maggiori garanzie per la pace, e l’impero.
Dunque l’impero necessita.
Faccio un esempio concreto di come l’idealità dantesca sia poi stata usata nella politica vera e storica.
Quando Gian Galeazzo Visconti lotta contro Firenze si riproporrà drammatico il dilemma “politico” tra regno e repubblica.
Il Visconti sbandierava, nella sua pubblicistica, l’assicurazione della pace, appunto, mentre Firenze della libertà.
Faccio notare che la pace di Gian Galeazzo non era dantesca ma era uno spunto dantesco (ché la pace assicurata deve pure essere giusta!) e che la libertà di una città come Firenze era pur sempre condizionata (Firenze era stata ghibellina, con Manfredi, preda del Valois con Bonifacio ecc, per cui la si può considerare libera?).
LIBRO TERZO
Capitolo sedicesimo
Nel capitolo precedente, spiega Dante, si è dimostrato che l’imperatore non dipende dal Papa.
Sconcertante asserzione, che dimostra A che Dante è diventato uomo di verità (perì in lui l’uomo di parte) B che Dante disconosce tutte le bolle con le quali i pontefici avevano dichiarato sé stessi infallibili e soli artefici d’ogni cosa si muova sulla terra…
Dante, invece, sostiene addirittura che l’imperatore è in stretto contatto (meglio dire, dovrebbe) con il principe dell’universo, Dio.
L’uomo è in mezzo tra le cose corruttibili e le incorruttibili, dunque deve partecipe della natura degli estremi.
7. Duos igitur fines providentia illa inenarrabilis homini proposuit intendendos :
beatitudinem scilicet huius vite, que in operatione proprie virtutis consistit et per
terrestrem paradisum figuratur; et beatitudinem vite ecterne, que consistit in fruitione
divini aspectus ad quam propria virtus ascendere non potest, nisi lumine divino
adiuta, que per paradisum celestem intelligi datur.
(Due, dunque, i fini che quella Provvidenza inenarrabile ha inteso proporre agli uomini:
la felicità di questa vita consiste nell’operazione delle proprie virtù ed è raffigurata nel Paradiso Terrestre; e la felicità della vita eterna, che consiste nella fruizione dell’aspetto divino che la nostra propria virtù non può ascendere, se non aiutata dal lume divino, che è dato dall’intelligenza attraverso il Paradiso Celeste).
Ultimo aggiornamento (Venerdì 31 Agosto 2012 10:27)