DANTE E L'INCOMMENSURABILE INQUIETUDINE DELLE SUE RIME Per una rennovatio lecturae Dantis. - PARTE PRIMA
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Dante è il più straordinario risultato della poesia italiana di tutti i tempi sicuramente per talento personale e sicuramente per la sua capacità di trovare giovamento dal dolore per i tempi e per gli eventi.
Nato a Firenze nel Maggio 1265, scrive sin da subito rime riconducibili ai provenzali e ai siciliani, rime sboccate per sostenere le varie tenzoni di cui fu protagonista (la più famosa delle quali è quella con Forese), e rime petrose.
Tastando più generi metrici, dal sonetto, alla canzone, alle ballate ecc…, le rime dantesche possono essere lette in due momenti distinti: prima della conversione umana e letteraria, dopo la conversione.
L’opera che funge da spartiacque nella sua vita è decisamente la Vita Nuova, 1290, allorquando, nella cronistoria dell’amore sbocciato per Beatrice di Folco Portinari, egli si illumina di sentimenti alti che portano dall’amore vero, alla giustizia, alla verità in un excursus sentimentale, (in una specie di anticipato Bildungsroman) che assume, in termini di valore assoluto, una profonda indagine psicologica le cui radici affondano nelle concretissime e drammaticissime esperienze politico-sociali che il giovane Dante si trova a compiere.
Ritengo che avvenne a Dante come avvenne a San Francesco, una chiamata al Bene, un elevamento morale per mezzo dello sconvolgente tirocinio nella battaglia di Campaldino e nello svolgimento degli uffici di governo come Priore.
LE RIME
Una poesia importantissima di Dante è Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra, ispirato al fiorentino da Arnault Daniel, è fondamentale per la novità metrica. Si tratta, infatti, del primo caso di una sestina doppia o sestina lirica, poi esaltata da Petrarca e ripresa da Leopardi.
Sei endecasillabi in sei sestina con sei parole chiave a fine di ogni verso che non rimano mai all’interno della stessa strofa ma che sono le medesime di fine verso di ogni strofa.
Nella chiusa di tre versi tre parole chiave compaiono all’interno e tre parole chiave a fine verso.
Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra
son giunto, lasso!, ed al bianchir de’ colli,
quando si perde lo color ne l’erba;
e ’l mio disio però non cangia il verde,
5si è barbato ne la dura petra
che parla e sente come fosse donna.
Similemente questa nova donna
si sta gelata come neve a l’ombra;
che non la move, se non come petra,
10il dolce tempo che riscalda i colli
e che li fa tornar di bianco in verde
perché li copre di fioretti e d’erba.
Quand’ella ha in testa una ghirlanda d’erba,
trae de la mente nostra ogn’altra donna;
15perché si mischia il crespo giallo e ’l verde
sì bel, ch’Amor lì viene a stare a l’ombra,
che m’ha serrato intra piccioli colli
più forte assai che la calcina petra.
La sua bellezza ha più vertù che petra,
20e ’l colpo suo non può sanar per erba;
ch’io son fuggito per piani e per colli,
per potere scampar da cotal donna;
e dal suo lume non mi può far ombra
poggio né muro mai né fronda verde.
25Io l’ho veduta già vestita a verde
sì fatta, ch’ella avrebbe messo in petra
l’amor ch’io porto pur a la sua ombra;
ond’io l’ho chesta in un bel prato d’erba
innamorata, com’anco fu donna,
30e chiuso intorno d’altissimi colli.
Ma ben ritorneranno i fiumi a’ colli
prima che questo legno molle e verde
s’infiammi, come suol far bella donna,
di me; che mi torrei dormire in petra
35tutto il mio tempo e gir pascendo l’erba,
sol per veder do’ suoi panni fanno ombra.
Quandunque i colli fanno più nera ombra,
sotto un bel verde la giovane donna
la fa sparer, com’uom petra sott’erba.
Tra i 366 componimenti del Canzoniere petrarchesco, saranno 9 le sestine liriche.
Le Rime dantesche hanno un’importanza particolare e ineguagliabile rispetto alla tradizione letteraria italiana.
Analizziamo le più famose:
DANTE AI FEDELI D’AMORE
A ciascun’alma presa e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
4salute in lor segnor, cioè Amore.
Si sente l’influenza di Guinizzelli nel “gentil core” nel “cospetto” che ricorda quando Guinizzelli immagina di essere davanti al Divino e nella maniera cortese, cioè borghese della lirica.
Già eran quasi che atterzate l’ore
del tempo che onne stella n’è lucente,
quando m’apparve Amor subitamente,
8cui essenza membrar mi dà orrore.
Si tratta della visione di Amore che Dante racconta agli amici di avere avuto.
Erano già “atterzate l’ore”, che ricalca quell’ “ora terza” centrale nella Passione di Cristo Gesù.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia avea
11madonna involta in un drappo dormendo.
La visione di Amore si esplicita in modo imperioso e solenne, con quell’allegria che è sentimento essenziale per capire il carattere propizio del dio.
L’Amore ha il cuore del poeta in mano e tra le braccia madonna Beatrice. L’allegrezza del dio e il sonno della donna sono chiaramente sentimenti del sospeso, pongono il poeta in attesa che qualcosa avvenga.
Poi la svegliava, e d’esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
14appresso gir lo ne vedea piangendo.
[Vita Nuova III 10-12]
Il risveglio della donna e il suo atteggiamento umile e pio sono il segno di una mediazione per quella visione che al poeta aveva dato “orrore”.
Il nono componimento dell’edizione maior realizzata da Contini è Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io.
DANTE A GUIDO CAVALCANTI
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
4per mare andasse al voler vostro e mio;
Del primo verso sottolineerei soltanto il forte personalismo di Dante: Guido, il Cavalcanti, l’amico, che risponde (prendo dal Contini) col sonetto S’io fossi quelli che d’amor fu degno; Lapo è Gianni de’ Ricevuti; il punto focale è quel Guido è citato due volte, col vocativo e col pronome, Lapo è citato e Dante ancora due volte coi due pronomi (di cui uno tronco). A parte il fatto di citarsi due volte (che è anche per il Cavalcanti, lasciando subalterno il terzo amico), c’è il discorso che Guido apre il verso e Dante lo chiude: non può essere una chiara indicazione che egli si sente l’epigono di una scuola di poeti che andare a ripetersi, a rompersi o a esaltarsi?
“L’incantamento” è la conditio sine qua non senza cui né si può fare poesia né se ne può creare di nuova.
L’immagine del vascello che va a comandato dei tre ci ricollega allo stesso Dante della “navicella” paradisiaca e al Petrarca del Và la nave mia colma d’obblio.
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
8di stare insieme crescesse ’l disio.
“L’impedimento” è la selva oscura che tutti si attraversa nella vita, ma Dante si auspica qui, di non conoscerla, di non trovarla, forte dell’unione. “Vivendo sempre in un talento” non richiama i “talenti da far fruttare” di cui parla Gesù nel Vangelo?
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
11con noi ponesse il buono incantatore:
Qui elenca, poi, le due donne amate dagli amici e con una perifrasi oscura la sua amata; “con quella ch’è sul numer de le trenta”, Beatrice? Troppo noto quel passo dantesco che riferisce che nel famoso elenco delle più belle donne fiorentine Beatrice compariva come la nona (sebbene questa coincidenza possa fare pensare a un gioco dantesco di rimandi…). D’altronde, perché una perifrasi? Una perifrasi, poi, che indica o colei che è trentesima in detta classifica o coloro che è tra le prime trenta. Perché, dunque, una perifrasi? Il dubbio rimane: per nascondere il nome di Beatrice, visto che nascondeva l’amore per lei attraverso le donne-schermo? per non riferire il nome di una donna-schermo, per non fare ingelosire l’amata o sparlar la gente? Il dubbio rimane.
Più oltre Dante si augura che i tre amici siano compagnia nel viaggio (della vita). La loro compagnia, però, non sia casuale, cioè non queste qui perché passavano, ci sono piaciute e via così… La loro compagnia “ con noi ponesse il buono incantatore”.
Per avere incantesimo ci vuole chi l’incantesimo lo faccia: il buon incantatore è, evidentemente, Dio. Che, dunque, le donne che amiamo siano con noi per volere di Dio, che sia, dunque, un viaggio benedetto da un’amicizia salda e un amore puro.
e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
14sì come i’ credo che saremmo noi.
Il proposito di ritrovarsi in un locus amenous a parlare sempre d’amore avrà pure, in qualche grado, suggerito a Boccaccio l’idea della cornice.
L’augurio che le tre donne siano contente, “sì come i’ credo che saremmo noi” (che è più sicurezza che dubbio, nonostante il congiuntivo) conclude in modo fiabesco un sonetto idillico.
Per una ghirlandetta:
(Altre rime del tempo della Vita Nuova)
PER UNA GHIRLANDETTA
Si tratta di una ballata. Se n’è scritto molto. A me preme sottolineare l’ossessiva riproposizione della parola d’ordine della cerchia di poeti a cui Dante apparteneva: “gentile”. Un’ossessiva ripetizione che tornerà assai spesso (e con esiti diversi) all’interno del suo rimario. Questa volta è la ghirlandetta di “fior gentile”…
Per una ghirlandetta
ch’io vidi, mi farà
sospirare ogni fiore.
I’ vidi a voi, donna, portare
5ghirlandetta di fior gentile,
e sovr’a lei vidi volare
un angiolel d’amore umile;
e ’n suo cantar sottile
dicea: "Chi mi vedrà
10lauderà ’l mio signore".
Siamo davanti ad un affresco di parole, in cui la donna-angelo (che possiamo figurarci come la Primavera di Botticelli, in qualche modo) assurge a ruolo di personaggio salvifico, evangelizzatore.
Se io sarò là dove sia
Fioretta mia bella [a sentire],
allor dirò la donna mia
che port’in testa i miei sospire.
15Ma per crescer disire
mia donna verrà
coronata da Amore.
Fioretta è la donna della ballata. Contini è persuaso che Fioretta si identifichi con Violetta, a cui altre poesie sono dedicate. Io non ne sono punto deciso.
Si tratterà di senhal, forse addirittura inventati, se non riferiti alle donne-schermo di cui parla nella Vita Nuova, atti a incarnare in una donna la dedicatoria finale di una poesia d’amore che altrimenti risulterebbe troppo aleatoria e perciò perderebbe di appeal. In questo vi si deve scorgere la concretezza discreta di Dante, nel nominare questa “Fioretta” e nell’apostrofarla come “mia bella” che poteva essere, a ben vedere, un senhal per la donna-schermo, come detto, ma anche un senhal sotto cui nascondere Beatrice stessa.
Il dilemma rimane. Perché scrivere “Fioretta mia bella?”, non sarebbe bastato dire “Fioretta” o al più “Fioretta mia”? Perché aggettivarla come portatrice di grazia. O è Beatrice, dunque, o è una delle donne-schermo (le cui eccessive lodi hanno fatto infuriare Beatrice che, in risposta, gli ha tolto il saluto).
Io sono più per rintracciarvi, in ultima analisi questo grado di complessità: Fioretta è un senhal diverso da Violetta e si indirizza per necessità amatoria e poetica verso una donna concreta le cui eccessive lodi costeranno a Dante l’esilio da Beatrice.
Le parolette mie novelle,
che di fiori fatto han ballata,
20per leggiadria ci hanno tolt’elle
una vesta ch’altrui fu data:
però siate pregata,
qual uom la canterà,
che li facciate onore.
Forse a questa ballata sarebbe stato degno mettere altro finale, se fratello Dante non si dorrà di ciò che il mio basso intelletto dice.
“Parolette” “leggiadria”, due parole-chiave. Per il resto c’è una certa svogliatezza.
(Altre rime del tempo della Vita Nuova)
SONETTO, SE MEUCCIO T’è MOSTRATO
Sonetto, se Meuccio t’è mostrato,
così tosto ’l saluta come ’l vedi,
e va correndo e gittaliti a’ piedi,
4sì che tu paie bene accostumato.
Il riferirsi di un poeta direttamente alla sua poesia, in questo caso, al sonetto, per indicargli a chi rivolgersi (Meuccio) è una tecnica che stabilisce una familiarità alta all’interno del circolo scrittore-scritto-lettore.
Il tono è gioviale e colloquiale. La scena allegra e consona alla situazione, persino comica, nel fantasticare di questo sonetto (umanizzato per prosopopea) che si getta ai piedi di Meuccio per sembrargli garbato.
E quando se’ con lui un poco stato,
anche ’l risalutrai, non ti ricredi;
e poscia a l’ambasciata tua procedi,
8ma fa che ’l tragghe prima da un lato;
Il sonetto è ambasciatore.
e dì: "Meuccio, que’ che t’ama assai
de le sue gioie più care ti manda,
11per accontarsi al tu’ coraggio bono".
E qui Meuccio diventa protagonista, per quel suo coraggio buono.
Ma fa che prenda per lo primo dono
questi tuo’ frati, e a lor sì comanda
14che stean con lui e qua non tornin mai.
La compagnia dei versi di Dante per l’amico. Non è questo, già un fine alto di poesia?
(Altre rime del tempo della Vita Nuova)
De gli occhi de la mia donna si move
un lume sì gentil, che dove appare
si veggion cose ch’uom non pò ritrare
4per loro altezza e per lor esser nove:
e de’ suoi razzi sovra ’l meo cor piove
tanta paura, che mi fa tremare,
e dicer "Qui non voglio mai tornare";
8ma poscia perdo tutte le mie prove,
e tornomi colà dov’io son vinto,
riconfortando gli occhi paurusi,
11che sentier prima questo gran valore.
Quando son giunto, lasso!, ed e’ son chiusi;
lo disio che li mena quivi è stinto:
14però proveggia a lo mio stato Amore.
(Altre rime del tempo della Vita Nuova)
E’M’INCRESCE DI ME Sì DURAMENTE
E’ m’incresce di me sì duramente,
ch’altrettanto di doglia
lasso!, però che dolorosamente
sento contro mia voglia
5raccoglier l’aire del sezza’ sospiro
entro ’n quel cor che i belli occhi feriro
quando li aperse Amor con le sue mani
per conducermi al tempo che mi sface.
Oimè, quanto piani,
10soavi e dolci ver me si levaro,
quand’elli incominciaro
la morte mia, che tanto mi dispiace,
dicendo "Nostro lume porta pace"!
"Noi darem pace al core, a voi diletto"
15diceano a li occhi miei
quei de la bella donna alcuna volta;
ma poi che sepper di loro intelletto
che per forza di lei
m’era la mente già ben tutta tolta,
20con le insegne d’Amor dieder la volta;
sì che la lor vittoriosa vista
poi non si vide pur una fiata:
ond’è rimasa trista
l’anima mia che n’attendea conforto,
25e ora quasi morto
vede lo core a cui era sposata,
e partir la convene innamorata.
Innamorata se ne va piangendo
fora di questa vita
30la sconsolata, ché la caccia Amore.
Ella si move qinci sì dolendo,
ch’anzi la sua partita
l’ascolta con pietate il suo fattore.
Ristretta s’è entro il mezzo del core
35con quella vita che rimane spenta
solo in quel punto ch’ella si va via;
e ivi si lamenta
d’Amor, che fuor d’esto mondo la caccia;
e spessamente abbraccia
40li spiriti che piangon tuttavia,
però che perdon la lor compagnia.
L’imagine di questa donna siede
su ne la mente ancora,
là ’ve la pose quei che fu sua guida;
45e non le pesa del mal ch’ella vede,
anzi vie più bella ora
che mai e vie più lieta par che rida;
e alza li occhi micidiali, e grida
sopra colei che piange il suo partire:
50"Vanne, misera, fuor, vattene omai!".
Questo grida il desire
che mi combatte così come sole,
avvegna che men dole,
però che ’l mio sentire è meno assai
55ed è più presso al terminar de’ guai.
Lo giorno che costei nel mondo venne,
secondo che si trova
nel libro de la mente che vien meno,
la mia persona pargola sostenne
60una passion nova,
tal ch’io rimasi di paura pieno;
ch’a tutte mie virtù fu posto un freno
subitamente, sì ch’io caddi in terra,
per una luce che nel cuor percosse:
65e se ’l libro non erra,
lo spirito maggior tremò sì forte,
che parve ben che morte
per lui in questo mondo giunta fosse:
ma or ne incresce a quei che questo mosse.
70Quando m’apparve poi la gran biltate
che sì mi fa dolere,
donne gentili a cu’ i’ ho parlato,
quella virtù che ha più nobilitate,
mirando nel piacere,
75s’accorse ben che ’l suo male era nato;
e conobbe ’l disio ch’era creato
per lo mirare intento ch’ella fece;
sì che piangendo disse a l’altre poi:
"Qui giugnerà, in vece
80d’una ch’io vidi, la bella figura,
che già mi fa paura;
che sarà donna sopra tutte noi,
tosto che fia piacer de li occhi suoi".
Io ho parlato a voi, giovani donne,
85che avete li occhi di bellezze ornati
e la mente d’amor vinta e pensosa,
perché raccomandati
vi sian li detti miei ovunque sono;
e ’nnanzi a voi perdono
90la morte mia a quella bella cosa
che me n’ha colpa e mai non fu pietosa.
Canzone di rimpianto. Gli occhi dell’amata gli sono proibiti e schivi. Egli riflette sul suo dolore. “Contro mia voglia” dice, così come si augurava i venti della nave nel sonetto Guido, i’ vorrei.
VV. 25-27 Immagine dell’anima sposata al cuore.
Accenni di dolore mortale e di ultimi atti sono disseminati “sapientemente” nel testo, a catturare l’attenzione del lettore attorno ad un comunque sincero e stridente vuoto dell’anima.
“Lo giorno che costei nel mondo venne…” è forse lancio di quel Benedetto ‘l giorno che è ancora di là dallo scriversi.
“Nel libro de la mente che vien meno” mi piace molto come immagine quella della mente come libro di ricordi che tuttavia si cancella col passar del tempo.
L’extrema ratio del componimento si svela in una degna richiesta di perdono alle giovani donne.
Beatrice non fu mai pietosa.
(Altre rime del tempo della Vita Nuova)
LO DOLOROSO AMOR CHE MI CONDUCE
Il nome di Beatrice, tra le rime, ha l’hapax in questa canzone.
Credo che questo illumini sulle altre, perché il nome di Beatrice è detto nel verso più tragico che si possa immaginare: “ Per quella moro c’ha nome Beatrice”.
Perché scrivere a così chiare lettere il nome suo? Perché non un senhal, non una parafrasi?
Beatrice gli ha tolto il saluto per l’eccessivo trasporto che Dante mostrava per le altre donne, Fioretta, Violetta…
Pronunciare il suo nome, il suo nome vero, è un’estrema richiesta di perdono! La più straziante e disperata che si possa immaginare. “Per quella moro c’ha nome Beatrice” vuol dire, “amo te, amo Beatrice, solo Beatrice, ti amo al punto di morire, ti amo più di me stesso e voglio che tutti lo sappiano!”.
Lo doloroso amor che mi conduce
a fin di morte per piacer di quella
che lo mio cor solea tener gioioso,
m’ha tolto e toglie ciascun dì la luce
5che avean li occhi miei di tale stella,
che non credea di lei mai star doglioso:
e ’l colpo suo c’ho portato nascoso,
omai si scopre per soverchia pena,
la qual nasce del foco
10che m’ha tratto di gioco,
sì ch’altro mai che male io non aspetto;
e ’l viver mio (omai esser de’ poco)
fin a la morte mia sospira e dice:
"Per quella moro c’ha nome Beatrice".
15Quel dolce nome, che mi fa il cor agro,
tutte fiate ch’i’ lo vedrò scritto
mi farà nuovo ogni dolor ch’io sento;
e de la doglia diverrò sì magro
de la persona, e ’l viso tanto afflitto,
20che qual mi vederà n’avrà pavento.
E allor non trarrà sì poco vento
che non mi meni, sì ch’io cadrò freddo;
e per tal verrò morto,
e ’l dolor sarà scorto
25con l’anima che sen girà sì trista;
e sempre mai con lei starà ricolto,
ricordando la gio’ del dolce viso,
a che niente par lo paradiso.
Pensando a quel che d’Amore ho provato,
30l’anima mia non chiede altro diletto,
né il penar non cura il quale attende;
ché, poi che ’l corpo sarà consumato,
se n’anderà l’amor che m’ha sì stretto
con lei a quel ch’ogni ragione intende;
35e se del suo peccar pace no i rende,
partirassi col tormentar ch’è degna.
sì che non ne paventa;
e starà tanto attenta
d’imaginar colei per cui s’è mossa,
40che nulla pena avrà ched ella senta;
sì che se ’n questo mondo io l’ho perduto,
Amor ne l’altro men darà trebuto.
Morte, che fai piacere a questa donna,
per pietà innanzi che tu mi dis[c]igli,
45va da lei, fatti dire
perchè m’avvien che la luce di quigli
che mi fan tristo, mi sia così tolta:
se per altrui ella fosse ricolta,
falmi sentire, e trarra’mi d’errore,
50e assai finirò con men dolore.
Rime allegoriche e dottrinali
Canzone a me cara, ma credo che possa esserlo a chiunque valuti la grandezza del suo contenuto. Qui il poeta è filologo. Non succede come in Guinizzelli che il bolognese dà una definizione dell’amore, contraddice l’altrui e così sia.
No! In Dante la grandezza viene dall’umiltà. Egli prima si pente (e si è pentito in altre grandi canzoni come Lo doloroso amor che mi conduce …), poi torna a ragionare su basi completamente nuove dell’argomento e addiviene, molto spesso, a risultati a dir poco sorprendenti.
Come in questo caso, in cui “smaschera” l’ipocrisia e l’ottusità della gente comune (che è stata la sua stessa) nel ritenere o meglio nel confondere deliberatamente il nobile concetto di leggiadria con cioè che è “vile e noioso”.
Egli canterà “disamorato” ma pure spera, così cantando altamente e rettamente, di recuperare il perduto rapporto con Amore (per mezzo del peccato di confondere, ecc…).
Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato,
non per mio grato,
ché stato non avea tanto gioioso,
ma però che pietoso
5fu tanto del meo core,
che non sofferse d’ascoltar suo pianto;
i’ canterò così disamorato
contra ’l peccato,
ch’è nato in noi, di chiamare a ritroso
10tal ch’è vile e noioso
con nome di valore,
cioè di leggiadria, ch’è bella tanto
che fa degno di manto
imperial colui dov’ella regna:
15ell’è verace insegna
la qual dimostra u’ la vertù dimora;
per ch’io son certo, se ben la difendo
nel dir com’io la ’ntendo,
ch’Amor di sé mi farà grazia ancora.
La leggiadria è “bella tanto” che nobilita al punto l’uomo nel cui cuore regna da renderlo degno di cingere il mantello imperiale, in altri termini lo fa degno di essere un imperatore, lo pone al pari dell’imperatore.
Siamo, continuando al Guinizzelli, e se ben si pensa, al sovvertimento sociale. Non tale da indurre in pensiero che un contadino sia leggiadro, ma sempre (nel campo del possibile) si universalizza il concetto di nobiltà (leggiadria).
Naturalmente questo interesse alla democratizzazione del concetto rispondeva alle esigenze nate in seno alla cultura e alla società del Trecento comunale, in cui i borghesi Guinizzelli e Dante ricoprirono ruoli di tutto rispetto. Invero, nelle loro parole c’era qualcosa di più della semplice rivendicazione di parte: era il presentimento che tutti gli uomini fossero veramente fratelli e figli di uno stesso Dio.
Questa idea era più religiosa in Dante che in Guinizzelli, forse, ma tuttavia era sentita con passione.
20Sono che per gittar via loro avere
credon potere
capere là dove li boni stanno
che dopo morte fanno
riparo ne le mente
25a quei contanti c’hanno canoscenza.
Dante si espone oltre. Dice che getta via la strada malvagia per imboccare la via dei buoni.
Egli vuole essere degno di entrare nel luogo dove stanno i buoni (si noti il presente che indica l’eterna loro memoria),
i quali dopo la morte si riparano (continuano a vivere) nella mente di coloro che hanno conoscenza.
Ma lor messione a’ bon non pò piacere,
perché tenere
savere fora, e fuggiriano il danno,
che si aggiugne a lo ’nganno
30di loro e de la gente
c’hanno falso iudicio in lor sentenza.
Qual non dirà fallenza
divorar cibo ed a lussuria intendere?
ornarsi, come vendere
35si dovesse al mercato di non saggi?
ché ’l saggio non pregia om per vestimenta,
ch’altrui sono ornamenta,
ma pregia il senno e li genti coraggi.
Lo dice chiaramente Dante, nella querelle prende posizione inderogabilmente: il saggio non pregia l’uomo per quello che indossa, né per gli ornamenti, ma pregia l’intelligenza e le genti coraggiose.
E altri son che, per esser ridenti,
40d’intendimenti
correnti voglion esser iudicati
da quei che so’ ingannati
veggendo rider cosa
che lo ’ntelletto cieco non la vede.
Adesso si parla dei pravi, invece. Contini, non so con quale spirito, sentenzia: “Dante contro Don Giovanni”. Io correggo il tiro “Dante contro i Don Giovanni”.
Dante spiega che ci sono alcuni che sogliono (per scelta? per ignoranza?) essere ingannati da sorrisi e maniera raffinate per le quali ridono.
45E’ parlan con vocaboli eccellenti;
vanno spiacenti,
contenti che da lunga sian mirati;
non sono innamorati
mai di donna amorosa;
Coloro che vivono solo di sollazzo e riso sono ingannati e contenti ma non sono innamorati di una nobil donna. Si ingannano e sono ingannati. “Mira ed è mirata e in cor s’allegra”.
50 ne’ parlamenti lor tengono scede;
non moveriano il piede
per donneare a guisa di leggiadro,
ma come al furto il ladro,
così vanno a pigliar villan diletto;
55e non però che ’n donne è sì dispento
leggiadro portamento,
che paiono animai sanza intelletto.
Sono felice di avere conferma, in questa analisi, del fatto che la mia mente, lettore, sia assolutamente coincidente con Dante.
Non così Contini: il critico mi sembra che sottovaluti troppo l’aspetto morale della lezione dantesca.
Lo si scusi pure col sapere e dire che viviamo nell’anticiviltà del Terzo Millennio, in cui, per anni, ho dovuto sentire che erano banditi i moralismi, che l’etica e la detta morale non interessano nessuno, che c’è persino l’elogio del triviale e del criminoso, del peccato concesso e anzi cercato ad ogni costo e del proibito. Risulterà difficile, dunque, a chi legge le Rime dantesche in questo tempo, se è perfettamente inscatolato nel meccanismo ateo-individualistico, gustare appieno la moralità del Sommo Poeta.
Dante accusa costoro (i pravi) di donneggiare “a guisa di leggiadro” travestendosi da uomini leggiadri (nobili) salvo poi arrivare ai loro scopi sordidi (villan diletto) come fa il ladro con il furto.
Codesti uomini sono “senza intelletto”, privi di logica (oltre che di onestà), sono uomini-bestie.
Se ne ricorderà, Dante, di costoro quando dovrà parlare dei lussuriosi visti nell’Inferno.
Così Orlando (quello ariostesco), privato dell’intelletto, non è più un cavaliere. Riacquistato quello riacquisterà il suo ruolo.
Ancor che ciel con cielo in punto sia,
che leggiadria
60disvia cotanto, e più che quant’io conto,
io, che le sono conto
merzé d’una gentile
che la mostrava in tutti gli atti sui,
non tacerò di lei, ché villania
65far mi parria
sì ria, ch’a’ suoi nemici sarei giunto:
per che da questo punto
con rima più sottile
tratterò il ver di lei, ma non so cui.
70Eo giuro per colui
ch’Amor si chiama ed è pien di salute,
che sanza ovrar vertute
nessun pote acquistar verace loda:
dunque se questa mia matera è bona,
75come ciascun ragiona,
sarà vertù o con vertù s’annoda.
Strofa importante: non sarò il primo né l’ultimo nel vedere l’annuncio della Commedia in queste rime.
“Con rima più sottile”, afferma Dante di voler parlare di Beatrice (la gentile).
“Merzé d’una gentile/ che la mostrava in tutti gli atti sui…” è proprio l’incarnazione della Gentilezza, della Nobiltà, fatta in Beatrice.
Non è pura vertù la disviata,
poi ch’è blasmata,
negata là ’v’è più vertù richesta,
80cioè in gente onesta
di vita spiritale
o in abito che di scienza tiene.
Dunque, s’ell’è in cavalier lodata,
sarà mischiata,
85causata di più cose; perché questa
conven che di sé vesta
l’un bene e l’altro male,
ma vertù pura in ciascuna sta bene.
Sollazzo è che convene
90con esso Amore e l’opera perfetta:
da questo terzo retta
è vera leggiadria e in esser dura,
sì come il sole al cui esser s’adduce
lo calore e la luce
95con la perfetta sua bella figura.
Leggiadria è conveniente se sostenuta da Sollazzo, Amore e l’opera perfetta, così come il sole ha calore, luce e figura perfetta (cerchio).
Che il sole sia simbolo di Dio è cosa più che chiara, ma in questo luogo interessa l’affinarsi dell’elucubrazione di Dante: a gente onesta, di vita spirituale o che si dedica a scienza la leggiadria non è perfetta di per sé; diviene perfetta per intervento divino, diventa perfetta se toccata dalla Perfezione (la triade sopra accennata).
Al gran pianeto è tutta simigliante
che, dal levante
avante infino a tanto che s’asconde,
co li bei raggi infonde
100vita e vertù qua giuso
ne la matera sì com’è disposta:
e questa, disdegnosa di cotante
persone, quante
sembiante portan d’omo, e non responde
105il lor frutto a le fronde
per lo mal c’hanno in uso,
simili beni al cor gentile accosta;
ché ’n donar vita è tosta
co’ bei sembianti e co’ begli atti novi
110ch’ognora par che trovi,
e vertù per essemplo a chi lei piglia.
Oh falsi cavalier, malvagi e rei,
nemici di costei,
ch’al prenze de le stelle s’assimiglia!
Continua la dissertazione e la polemica con i “falsi cavalieri” che ingannano facendo passare le proprie azioni come frutto di leggiadria ed invece rappresentando l’opposto di essa.
Il vero cavaliere, invece:
115Dona e riceve l’om cui questa vole,
mai non sen dole;
né ’l sole per donar luce a le stelle,
né per prender da elle
nel suo effetto aiuto;
120ma l’uno e l’altro in ciò diletto tragge.
Già non s’induce a ira per parole,
ma quelle sole
ricole che son bone, e sue novelle
sono leggiadre e belle;
125per sé caro è tenuto
e disiato da persone sagge,
ché de l’altre selvagge
cotanto laude quanto biasmo prezza;
per nessuna grandezza
130monta in orgoglio, ma quando gl’incontra
che sua franchezza li conven mostrare,
quivi si fa laudare.
Color che vivon fanno tutti contra.
Si declinano, qui, le vere virtù cavalleresche, la leggiadria: dare senza volere nulla in cambio, raccoglie le buone parole e lascia cadere le non buone, è desiderato dalle persone sagge perché saggio, non si inorgoglisce ma mostra la propria liberalità e grandezza d’animo ogni qual volta se ne presenta occasione. Vi si riconosce il modello paolino, inevitabilmente.
Nessun mortale è così. Siamo al decalogo della perfezione, quasi all’idealizzazione dell’uomo perfetto.
I’ MI SON PARGOLETTA BELLA E NOVA
La vita sentimentale di Dante è stata parecchio convulsa: la base per ogni questione è senz’altro Beatrice, incontrata a nove anni, rivista a diciotto (anche se perdersi di vista nella Firenze dell’epoca per nove anni è difficile immaginarlo a meno di non avere fatto viaggi e simili…). Contemporaneamente al “grande amore” Dante vive prima l’esperienza del matrimonio con Gemma, poi quella delle donne-schermo Fioretta e Violetta, per cui perderà il saluto di Beatrice e infine subirà la perdita di lei, dolore così intenso al fondo del quale c’è la sua conversione.
Tuttavia è una conversione che richiede anni, proprio gli anni, tra la morte di lei e l’impegno in politica, in cui Dante si “distrae” amando una pargoletta, la “pargoletta bella e nova” di cui qui si conta. Infine ci sarà la donna pietra, altre rime, altra età, altro fine.
Per ora focalizziamo l’attenzione sulla detta “pargoletta”.
Anche Contini ricapitola la complessa cronistoria dell’identificazione, sciogliendo i dubbi in favore di una pargoletta non meglio identificata che è l’amore che Beatrice rimprovera a Dante nel XXX del Purgatorio.
Divergo dalla lettura, perché si tratta di un componimento di tono e di funzione dottrinale, più simbolico che reale.
Se è vero che è Beatrice colei che attrae tutte le energie mentali del poeta, perché angelicare un’altra donna?
Perché dirla degna del Paradiso?
Non sarà allora o Beatrice stessa, questa pargoletta, come vogliono altri, o l’allegoria della Sapienza che scende da Dio nel cuore degli uomini che l’accettano?
- I’ mi son pargoletta bella e nova,
che son venuta per mostrare altrui
de le bellezze del loco ond’io fui.
I’ fui del cielo, e tornerovvi ancora
5per dar de la mia luce altrui diletto;
e chi mi vede e non se ne innamora
d’amor non averà mai intelletto,
ché non mi fu in piacer alcun disdetto
quando natura mi chiese a Colui
10che volle, donne, accompagnarmi a vui.
Ciascuna stella ne li occhi mi piove
del lume suo e de la sua vertute;
le mie bellezze sono al mondo nove,
però che di là su mi son venute:
15le quai non posson esser canosciute
se non da canoscenza d’omo in cui
Amor si metta per piacer altrui. -
Queste parole si leggon nel viso
d’un’angioletta che ci è apparita:
20e io che per veder lei mirai fiso,
ne sono a rischio di perder la vita;
però ch’io ricevetti tal ferita
da un ch’io vidi dentro a li occhi sui,
ch’i’ vo’ piangendo e non m’acchetai pui.
Cosa mi ha convinto alla lettura che ho dato è stata anche la chiusa. Il fatto che grazie alla “pargoletta” mira fisso, guarda dritto, non è in pericolo di vita. Un angelo salvifico questa ragazza.
E continua: dal momento che ricevetti una tale ferita poiché io vidi dentro a gli occhi suoi, ch’io vado piangendo e non mi acqueto mai (più o poi).
Riassumo, dunque, la mia posizione: o poesia pro mortis Beatrici o allegoria della Sapienza.
Anche Binni lascia balenare quest’ultima ipotesi.
Le due ballate che seguono questa, Perché ti vedi giovinetta e bella e Chi guarderà già mai sanza paura, dovrebbero essere indirizzate alla stessa “pargoletta” e, sempre nel campo del “forse”, ci aiutano a chiarire l’identità della pargoletta.
Pare logico che se la giovinetta è la pargoletta la mia precedente lettura decade. Si potrà dire che “se” la pargoletta è un’altra giovane donna si può dire che Dante si è incrudelito con quest’esperienza. Il verso finale è una prova inconfutabile del livore provato: “Possi tu spermentar …”.
Più stilnovista il sonetto. Quasi a mostrare l’incostanza di questo “amore” (che poi non sarà vero amore, come egli ha prima chiarito nella canzone Lo doloroso…).
IO SON VENUTO AL PUNTO DE LA ROTA
Altro capitolo della storia (vita) dantesca: le rime petrose.
Se si legge Contini e si scartano le ipotesi di identificazione ivi proposte, ci troviamo ancora in quell’ “eterno pellegrinare” alla ricerca di un vaghissimo identikit.
Più concreto, allora, (sebbene come voi vedete, amici, anch’io abbia azzardato, precedentemente, ma in questo luogo chiarisco: fu più per gioco di assimilazione psicologia con fratello Dante che per esile volontà di pettegolezzo), mi sembra più concreto parlare della poesia, la cui principale caratteristica è la ripetizione, in fin di strofa, di una rima perfetta:
Io son venuto al punto de la rota
che l’orizzonte, quando il sol si corca,
ci partorisce il geminato cielo,
e la stella d’amor ci sta remota
5per lo raggio lucente che la ’nforca
sì di traverso, che le si fa velo;
Io sono giunto al punto in cui la ruota (del cielo), quando il sole scende (si corica, va a dormire), ci partorisce il cielo dei Gemelli, e Venere (la stella di amore) resta remota a noi a causa del raggio lucente che la attraversa (‘nforca) così trasversalmente (di traverso) che le si fa velo…
e quel pianeta che conforta il gelo
si mostra tutto a noi per lo grand’arco
nel qual ciascun di sette fa poca ombra:
10e però non disgombra
un sol penser d’amore, ond’io son carco,
la mente mia, ch’è più dura che petra
in tener forte imagine di petra.
Contini pensa a Saturno più che alla luna per “quel pianeta che conforta il gelo e si mostra tutto a noi per lo grand’arco nel qual ciascun di sette fa poca ombra”.
Ricavando il senso del discorso, però, Dante parla prima del tramonto nel cielo dei Gemelli (siamo a Maggio-Giugno) e del fatto che Venere non è molto a noi visibile. Saturno, adesso, cosa c’entrerebbe? In che modo il suo grand’arco si mostra a noi? Perché ciascuno dei sette pianeti (della cosmologia trecentesca) gli fa un po’ di ombra?
A ben vedere, ma chissà, a me pare che si parli della Luna, la quale è a noi visibile, è pianeta freddo, sarebbe molto meglio il grand’arco (una delle fasi) e perché in qualche modo inteso come uno specchio degli altri pianeti (non tutti visibili) è l’immagine di come quelli devono a noi presentarsi.
Levasi de la rena d’Etiopia
15lo vento peregrin che l’aere turba,
per la spera del sol ch’ora la scalda;
e passa il mare, onde conduce copia
di nebbia tal, che, s’altro non la sturba,
questo emisperio chiude tutto e salda;
20e poi si solve, e cade in bianca falda
di fredda neve ed in noiosa pioggia,
onde l’aere s’attrista tutto e piagne:
e Amor, che sue ragne
ritira in alto pel vento che pioggia,
25non m’abbandona; sì è bella donna
questa crudel che m’è data per donna.
Chiusa la strofa “astrologica” Dante prosegue con una “geografica”. L’Etiopia, il vento pellegrino, la nebbia, la neve e la pioggia: c’è l’emporio del tempo meteorologico tutto in un susseguirsi di pochi versi per dire come il cielo diventi poi triste e piangente così come il suo animo abbandonato dalla donna ma non abbandonato (confortato) da Amore.
(Perché il pianeta confortasse il gelo è adesso più evidente).
Fuggito è ogne augel che ’l caldo segue
del paese d’Europa, che non perde
le sette stelle gelide unquemai;
30e li altri han posto a le lor voci triegue
per non sonarle infino al tempo verde,
se ciò non fosse per cagion di guai;
e tutti li animali che son gai
di lor natura, son d’amor disciolti,
35però che ’l freddo lor spirito ammorta:
e ’l mio più d’amor porta;
ché li dolzi pensier non mi son tolti
né mi son dati per volta di tempo,
ma donna li mi dà c’ha picciol tempo.
Ancora argomenti scientifici (vedi Guinizzelli).
Gli uccelli che migrano verso il caldo, sotto l’Orsa Maggiore; e gli animali “gai” perché morti nello spirito (privi, cioè, di spirito – il freddo lor spirito) non sentono amore e sono allegri per loro natura.
Ancora il grande Giacomo che ricalca la lezione del grandissimo Dante quando, per bocca di un pastore asiatico, loda “l’ignoranza naturale” della sua greggia.
Dante dice, infatti, “il mio spirito porta, invece, l’amore”. C’è la dignità dell’uomo in questi versi, senza avere la denigrazione dell’animale- parte di Creato.
40 Passato hanno lor termine le fronde
che trasse fuor la vertù d’Ariete
per adornare il mondo, e morta è l’erba;
ramo di foglia verde a noi s’asconde
se non se in lauro, in pino o in abete
o in alcun che sua verdura serba;
45e tanto è la stagion forte ed acerba,
c’ha morti li fioretti per le piagge,
li quai non poten tollerare la brina:
e la crudele spina
però Amor di cor non la mi tragge;
50per ch’io son fermo di portarla sempre
ch’io sarò in vita, s’io vivesse sempre.
Continua la lezione astrologica: le fronde degli alberi hanno passato il termine, tratte fuori dall’adornamento del mondo dalla virtù dell’Ariete (equinozio di primavera) e l’erba e morta; le foglie verdi si nascondono tranne che nel lauro, nel pino e nell’abate (negli alberi sempreverdi). E tanto è la stagione desolante, piena di avvizzimento, che persino i fiorellini (fioretti) sono morti lungo le strade, i quali fiori muoiono perché non resistono alla brina (all’umidità).
E la crudele spina l’Amore, tuttavia, non mi toglie dal cuore al punto che io sono persuaso che la porterò sempre finché sarò in vita, purché non viva per sempre.
Versan le vene le fummifere acque
per li vapor che la terra ha nel ventre,
che d’abisso li tira suso in alto;
55onde cammino al bel giorno mi piacque
che ora è fatto rivo, e sarà mentre
che durerà del verno il grande assalto;
la terra fa un suol che par di smalto,
e l’acqua morta si converte in vetro
60per la freddura che di fuor la serra:
e io de la mia guerra
non son però tornato un passo a retro,
né vo’ tornar; ché se ’l martiro è dolce,
la morte de’ passare ogni altro dolce.
65Canzone, or che sarà di me ne l’altro
dolce tempo novello, quando piove
amore in terra da tutti li cieli,
quando per questi geli
amore è solo in me, e non altrove?
70Saranne quello ch’è d’un uom di marmo,
se in pargoletta fia per core un marmo.
Canzone tutta scientifica, ormai, s’è capito: le acque versano il fumo del vapore interno alla terra che dall’abisso risale; mentre percorsi un cammino nel chiaro giorno mi piacque vederlo e mi piace ora che si sia formato un rivo e sarà così finché durerà dell’inverno il grande assalto; la terra fa un suolo che parrà di smalto e l’acqua si ghiaccerà (“l’acqua morta si converte in vetro”) a causa del freddo esterno; e io dalla mia guerra (dall’innamoramento forte e inevitabile che sento per lei) non farò un passo indietro, né voglio farlo, né voglio tornare, né voglio arrendermi; perché se il martirio è dolce la morte deve passare ogni dolcezza, la morte è la più dolce delle cose.
Canzone, or che sarà di me ne l’altro
dolce tempo novello, quando piove
amore in terra da tutti li cieli,
quando per questi geli
amore è solo in me, e non altrove?
Saranne quello ch’è d’un uom di marmo
se in pargoletta fia per core un marmo.
Finale di canzone: cosa sarà di me nella dolce prossima stagione, quando pioverà amorosamente sulla terra da tutti i cieli, quando, tra il rigido rigore dei ghiacci e del freddo, amore resisterà solo in me e non all’esterno, nel mondo vinto dal gelo stesso?
Sarà ciò che è di un uomo di marmo (sarò marmorizzato anch’io) se nella mia pargoletta ci sarà per cuore un marmo (se la pargoletta sarà insensibile al mio amore).
Ecco perché l’Amore resisterà solo in lui e non nell’ambiente e non nel cuore di lei!
AMOR, TU VEDI BEN CHE QUESTA DONNA
Amor, tu vedi ben che questa donna
la tua vertù non cura in alcun tempo
che suol de l’altre belle farsi donna;
e poi s’accorse ch’ell’era mia donna
5per lo tuo raggio ch’al volto mi luce,
d’ogne crudelità si fece donna;
sì che non par ch’ell’abbia cor di donna
ma di qual fiera l’ha d’amor più freddo;
ché per lo tempo caldo e per lo freddo
10mi fa sembiante pur come una donna
che fosse fatta d’una bella petra
per man di quei che me’ intagliasse in petra.
Il poeta innamorato si rivolge direttamente ad Amore, cerca aiuto, reclama attenzione; come un vassallo al feudatario (si diceva già di Guinizzelli) o piuttosto come un cittadino al giudice.
Amore, tu vedi bene come questa donna non cura mai la tua virtù (la nobiltà e la bellezza dell’essere innamorati); (vedi) che suole tra tutte le altre donne dimostrarsi la sola “donna”; e poiché si accorse che era la mia donna (che ero innamorato di lei) per il tuo raggio che mi illumina il volto (leggendomi in faccia l’amore che ho per lei), di ogni crudeltà si fece donna (divenne crudele come solo una donna sa essere).
Così che non pare che abbia un cuore di donna, ma di quelle fiera (quell’animale) che sente maggiore freddo (distacco, astio) per l’amore. Perché benché ci sia la stagione calda e quella fredda si mostra a me come una donna intagliata in una bella pietra per mano di quello che intagli la pietra.
Che gelore! Dante parla di questa insensibile quando bella donna che non lo calcola, che, anzi, dato che ha capito l’amore di lui, lo schiva.
Questa è la natura scontrosa della sua donna, ora ascoltiamo cosa dice Dante di sé:
E io, che son costante più che petra
in ubidirti per bieltà di donna,
15porto nascoso il colpo de la petra,
con la qual tu mi desti come a petra
che t’avesse innoiato lungo tempo,
tal che m’andò al core ov’io son petra.
E mai non si scoperse alcuna petra
20o da splendor di sole o da sua luce,
che tanta avesse né vertù né luce
che mi potesse atar da questa petra,
sì ch’ella non mi meni col suo freddo
colà dov’io sarò di morte freddo.
E io che sono duro (testardo) più di una pietra nell’ubbidire alla bellezza della donna, porto nascosto il colpo della pietra con la quale tu mi desti come di una pietra che t’avesse molestato (innoiato) per molto tempo, tale che mi andò al cuore dove io sono pietra.
E qui il poeta gioca col dolore. Non altrimenti, gioca.
25Segnor, tu sai che per algente freddo
l’acqua diventa cristallina petra
là sotto tramontana ov’è il gran freddo
e l’aere sempre in elemento freddo
vi si converte, sì che l’acqua è donna
30in quella parte per cagion del freddo:
così dinanzi dal sembiante freddo
mi ghiaccia sopra il sangue d’ogne tempo,
e quel pensiero che m’accorcia il tempo
mi si converte tutto in corpo freddo,
35che m’esce poi per mezzo de la luce
là ond’entrò la dispietata luce.
Signore, tu sai che per il freddo algido (sinonimi in funzione rafforzativa) l’acqua diventa pietra cristallina là sotto la tramontana dove il grande freddo si trasforma, così che l’acqua è donna perché come ella è fredda.
così davanti alla tua immagine fredda mi si ghiaccia il sangue ogni volta (ogne tempo) e quel pensiero che mi accorcia il tempo mi trasforma (converte, come prima, ché è più forte!) tutto il corpo freddo, così che mi esce poi per mezzo della luce là dove entrò la spietata luce.
Lungo e complesso procedimento retorico di analogie e ripetizioni in cui la “pietrosità” e la “freddezza” della donna, diventano motivi carnevaleschi per sottolineare un dolore più mentale che fisico. Perché nonostante Dante provi a farci sentire dolore fisico, questi versi rimangono distanti e non agisco nel cuore ma nella mente. Impossibile che egli non lo sapesse, piuttosto da credere che egli volesse questo: prendere l’Amore per la testa!
In lei s’accoglie d’ogni bieltà luce:
così di tutta crudeltate il freddo
le corre al core, ove non va tua luce:
40per che ne li occhi sì bella mi luce
quando la miro, ch’io la veggio in petra,
e po’ in ogni altro ov’io volga mia luce.
Da li occhi suoi mi ven la dolce luce
che mi fa non caler d’ogn’altra donna:
45così foss’ella più pietosa donna
ver me, che chiamo di notte e di luce,
solo per lei servire, e luogo e tempo!
Né per altro disio viver gran tempo.
Però, Vertù che se’ prima che tempo,
50prima che moto o che sensibil luce,
increscati di me, c’ho sì mal tempo:
entrale in core omai, ché ben n’è tempo,
sì che per te n’esca fuor lo freddo
che non mi lascia aver, com’altri, tempo;
55ché se mi giunge lo tuo forte tempo
in tal stato, questa gentil petra
mi vedrà coricare in poca petra
per non levarmi se non dopo il tempo,
quando vedrò se mai fu bella donna
60nel mondo come questa acerba donna.
Dopo avere esposto il caso chiede clemenza ad Amore, chiede che egli intervenga perché ella si innamori di lui, la chiama, persino, “gentil petra”.
Canzone, io porto ne la mente donna
tal, che con tutto ch’ella mi sia petra,
mi dà baldanza, ond’ogni uom mi par freddo;
sì ch’io ardisco a far per questo freddo
65la novità che per tua forma luce,
che non fu mai pensata in alcun tempo.
Riprende le parole cardinali, donna, petra, freddo, luce, tempo, ambendo dire di queste (nella suddetta canzone) in maniera nuova. La novità (cioè l’invenzione, da Arnault Daniel, della sestina doppia) diventa però troppo rallentata dalla macchinosità dei concetti e dalla ripetizione ossessiva delle forme, laddove, invece, se Dante la inventa è Petrarca a nobilitare con esiti davvero talentuosi e alti la sestina doppia.
COSì NEL MIO PARLAR VOGLIO ESSER ASPRO
A giusta ragione famosa, questa canzone ha svariati punti di interesse a partire dalla dichiarazione d’intendi che la titola. I titoli delle poesie, specie per questa antica età, sono dichiarazioni d’intendi e più, sono manifesti programmatici. Così come si capiva sin da subito la novità di Nel cor gentil rempaira sempre Amore, così possiamo dire che questa voglia di asperità che Dante riscontra in sé per un’esperienza amorosa più ruvida del previsto, rende il processo formativo e la capacità polifonica del registro dantesco, capace di provarsi molto meglio e molto più che nelle canzoni più guittoniane o più stilnoviste; ché non si tratta, ora, di essere oscuri o dolci, ma di essere “petrosi”, chiaramente aspri, inconfondibilmente duri e sassosi.
Gli esempi scientifici de I’ son giunto al punto della rota lasciano ampio spazio a pensieri più cogenti.
Così nel mio parlar voglio esser aspro
com’è ne li atti questa bella petra,
la quale ognora impetra
maggior durezza e più natura cruda,
5e veste sua persona d’un diaspro
tal, che per lui, o perch’ella s’arretra,
non esce di faretra
saetta che già mai la colga ignuda:
ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda
10né si dilunghi da’ colpi mortali,
che, com’avesser ali,
giuncono altrui e spezzan ciascun’arme;
sì ch’io non so da lei né posso atarme.
Insomma, tu aspra io aspro, tu pietra io pietra. C’è qui la presentazione “epica” della donna crudele e armata, che ferisce con gli sguardi e che si aggira, infallibile e invincibile come un Achelle, baldanzosa e fiera.
In più sembra che scansi i colpi volando (com’avesser ali, per cui vedi anche S’avessi ali –Canto notturno …).
Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi
15né loco che dal suo viso m’asconda;
ché, come fior di fronda,
così de la mia mente tien la cima:
cotanto del mio mal par che si prezzi,
quanto legno di mar che non lieva onda;
20e ’l peso che m’affonda
è tal che non potrebbe adequar rima.
Ahi angosciosa e dispietata lima
che sordamente la mia vita scemi,
perché non ti ritemi
25sì di rodermi il core a scorza a scorza,
com’io di dire altrui chi ti dà forza?
Nessun scudo lo protegge, nessun luogo lo ripara; chissà se per descrivere lo stesso stadio amoroso Petrarca prendere più da questo passo dantesco o dall’originale della Bibbia, o se piuttosto ne mischierà i caratteri…
Nell’ “ahi angosciosa e dispietata lima” Dante fa prova di un tono accusatorio, grave e severo, che gli sarà molto utile per la composizione dell’Inferno.
Tutta questa canzone, anzi tutte le rime petrose possono essere lette alla luce dei rimandi che troveremo nella prima cantica del Sommo Poema.
Ci sono elementi di novità e cliché che Dante alterna ancora in un ritmo “provenzaleggiante”, in qualche modo, ma che nelle terzine diventeranno musica e passione.
Siamo alle prove generali…
Ché più mi triema il cor qualora io penso
di lei in parte ov’altri li occhi induca,
per tema non traluca
30lo mio penser di fuor sì che si scopra,
ch’io non fo de la morte, che ogni senso
co li denti d’Amor già mi manduca;
ciò è che ’l pensier bruca
la lor vertù sì che n’allenta l’opra.
35E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra
con quella spada ond’elli ancise Dido,
Amore, a cui io grido
merzé chiamando, e umilmente il priego;
ed el d’ogni merzé par messo al niego.
Che i denti d’Amor gli mastichino i sensi, che la morte lo tragga fuori da ogni pensiero di salvezza, sono dati convenzionali, per un innamorato, ma meno che quel richiamo a Didone la cui figura, nel Medioevo, rievocava immantinente la lussuria sfrenata (vd. Inferno).
Che Amore, poi, a cui Dante grida compassione e sollecita aiuto, non risponda, è altra consuetudine atta a tragicizzare la vicenda.
40Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida
la debole mia vita, esto perverso,
che disteso a riverso
mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco:
allor mi surgon ne la mente strida;
45e ’l sangue, ch’è per le vene disperso,
fuggendo corre verso
lo cor, che ’l chiama; ond’io rimango bianco.
Elli mi fiede sotto il braccio manco
sì forte, che ’l dolor nel cor rimbalza:
50allor dico: "S’elli alza
un’altra volta, Morte m’avrà chiuso
prima che ’l colpo sia disceso giuso".
Ragioniamo. Se la selva oscura in cui Dante si perde è l’insieme dei peccati (dell’umanità e suoi personali) e se egli ha conosciuto un male che “poco più è morte”, dobbiamo ben credere che si riferisse anche a questo tipo di “amore” la sua riprovazione.
Quando egli si salva, capisce! Come ha dimostrato di avere capito i concetti di leggiadria (gentilezza, nobiltà) e di perdono (ché perdonar è ben vincer di guerra), con la Commedia e solo con la Commedia Dante capisce il vero amore. L’aveva accennato, sì, in una canzone del periodo felice, ma la morte della Gentilissima l’aveva schiantato, tanto che egli si rifugia (così si pensa) negli amori della Pargoletta e della Petra.
Dunque, più che “amore” questa sintomatologia è più riferibile a una malattia (e non era Amore una malattia per i Greci?) che con quel senso di beatitudine che poi il Poeta scoprirà nella rilettura dei Vangeli ecc…
Alla fine, infatti, cosa dice? La morte mi prenderà prima che mi sia sferzato il prossimo colpo di Amore.
Ancora archeologia poetica, quel “disteso e riverso” non ricorda versi leopardiani?
Così vedess’io lui fender per mezzo
lo core a la crudele che ’l mio squatra!
55poi non mi sarebb’atra
la morte, ov’io per sua bellezza corro:
ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo
questa scherana micidiale e latra.
Ohmè, perché non latra
60per me, com’io per lei, nel caldo borro?
ché tosto griderei: "Io vi soccorro".
e fare’l volentier, sì come quelli
che ne’ biondi capelli
ch’Amor per consumarmi increspa e dora
65metterei mano, e piacere’le allora.
Non mi sarebbe atra la morte, dice Dante (sulla specularità dei cui versi con quelli di Giacomo, insisto!); non solo non mi sarebbe atra (non mi dorrebbe, non mi parrebbe brutta), ma bella sarebbe la morte.
Perché questo diverso trattamento? Io mi riscaldo d’amore e la schiera latra di anime che invece temono la morte, no?
Io soccorrerei molti, con la mia voce. Dante è consapevole che dovrà redimersi, che la sua vita atipica, che l’eccezionalità del suo carattere, lo dovranno chiamare a azioni eroiche (mi farei forza se non ricordassi che in questo momento in testa mi gira “ e sorga ad atti illustri o si vergogni”).
Però questo disegno di redenzione è ancora vago e mischiato, vedremo tra poco, ancora con residui acerbi e “petrosi”, appunto, del suo carattere che lo trattengono in atteggiamenti troppo umani, troppo bassi.
Anzi, si apre qui, se si vuole, la più cedevole delle strofe che Dante abbia scritto. La più cedevole, perché le allusività che lancia sono davvero parte di quell’ “insospettabile” di cui, anni dopo, il Poeta dell’esilio, il Poeta del pentimento, il Laudator rectitudinis, il Sommo Poeta della visione dei mondi, avrà a pentirsi amaramente, capendo, si diceva, con questi pseudo-amori e con queste vicissitudini “basse” di avere rischiato una morte che non doveva essere ancora quella bella del Paradiso, quella sorella morte della Commedia, ma una morte che, pur chiamata bella, nascondeva amaro e durezza.
Si capisce perché Dante, sino agli ultimi anni, si sia dedicato anima e corpo alla stesura della Commedia: per un’espiazione che gli ha ridato vita.
S’io avessi le belle trecce prese,
che fatte son per me scudiscio e ferza,
pigliandole anzi terza,
con esse passerei vespero e squille:
70e non sarei pietoso né cortese,
anzi farei com’orso quando scherza;
e se Amor me ne sferza,
io mi vendicherei di più di mille.
Ancor ne li occhi, ond’escon le faville
75che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso,
guarderei presso e fiso,
per vendicar lo fuggir che mi face;
e poi le renderei con amor pace.
Se io avessi le belle trecce (della mia amata, di cui diceva in conclusione della precedente strofa), trecce che gli sono scudiscio e sferza, cioè che lo tormentano, prendondele (sempre “le trecce” per oggetto) alla terza ora (tre ore dopo l’alba) passerei con esse il vespro e le squille (arriverei a passare tutto il tempo con loro- il vespero e le squille sono la penultima e l’ultima ora in cui si divideva il giorno). Dante, per questi sentimenti accesiglisi, diventa né pietoso né cortese ma farebbe come un orso che scherza (morderebbe, dal Sacchetti in Contini).
Raro è vedere Dante che, anche prima della Vita Nuova, anche prima della Commedia, pur sbagliando, eppure si ponga nel campo degli empi e degli scortesi (si capisca il peso di quest’ultimo termine).
E rincara la dose: se Amore continua a sferzarmi, a provocarmi, a battermi, a colpirmi (diceva che la morte lo avrebbe scampato dal prossimo colpo…) “io mi vendicherei di più di mille” diventerebbe addirittura vendicativo.
Uno sfogo, questo del Poeta, senza precedenti ( e per fortuna senza seguito).
Ancora negli occhi da cui escono le faville, le scintille amorose che mi infiammano il cuore, (cuore che io porto ucciso, morto nel petto, dice) guarderei “presso e fiso” , la fisserei, la guarderei dritto in faccia per vendicare il fuggire che mi fa, per vendicare la sua ritrosia per il mio amore.
Spannung, massima tensione.
Poi un verso che chiude con un’improvvisa pace: “e poi le renderei con amor pace”.
Empio, scortese, orso, addirittura vendicativo, quanti gradi di caduta!, ora vuole amarla in pace.
Canzon, vattene dritto a quella donna
80che m’ha ferito il core e che m’invola
quello ond’io ho più gola,
e dàlle per lo cor d’una saetta;
ché bell’onor s’acquista in far vendetta.
Canzone, vattene direttamente a quella donna che mi ha ferito il cuore e che mi invoglia ciò di cui sono in ghiotta attesa, e dalle (ispirale) una freccia nel cuore: ché un bello onore si acquista nel fare vendetta.
TRE DONNE INTORNO AL COR MI SON VENUTE
A sentire Contini, in questa canzone d’esilio ci sarebbe il forte radicalismo dell’ego dantesco a far da colonna portante.
Tre donne intorno al cor mi son venute,
e seggonsi di fore;
ché dentro siede Amore,
lo quale è in segnoria de la mia vita.
5Tanto son belle e di tanta vertute,
che ’l possente segnore,
dico quel ch’è nel core,
a pena del parlar di lor s’aita.
Ciascuna per dolente e sbigottita,
10come persona discacciata e stanca,
cui tutta gente manca
a cui vertute né belta non vale.
Tempo fu già nel quale,
secondo il lor parlar, furon dilette;
15or sono a tutti in ira ed in non cale.
Queste così solette
venute son come a casa d’amico;
ché sanno ben che dentro è quel ch’io dico.
Questo incipit sarà pure stilnovistico, come dice Carducci (sempre in Contini), pure è così avvincente e perché in media res, e perché apparizione di “tre donne” e perché “misterica”. Innanzitutto non dico un lettore assennato ma un semplice curioso si chiederà: chi sono codeste tre donne, quell’ “intorno” è più un assedio, una riunione, una procedura di soccorso…
“E si siedono fuori (del cuore)”.
Dolesi l’una con parole molto,
20e ’n su la man si posa
come succisa rosa:
il nudo braccio, di dolor colonna,
sente l’oraggio che cade dal volto;
l’altra man tiene ascosa
25la faccia lagrimosa:
discinta e scalza, e sol di sé par donna.
Come Amor prima per la rotta gonna
la vide in parte che il tacere è bello,
egli, pietoso e fello,
30di lei e del dolor fece dimanda.
"Oh di pochi vivanda",
rispose in voce con sospiri mista,
"nostra natura qui a te ci manda:
io, che son la più trista,
35son suora a la tua madre, e son Drittura;
povera, vedi, a panni ed a cintura".
Poi che fatta si fu palese e conta,
doglia e vergogna prese
lo mio segnore, e chiese
40chi fosser l’altre due ch’eran con lei.
Tutta la rappresentazione “pietosissima” dell’apparizione e dello scambio di battute tra Amore e la desolata Giustizia è ricalcata dal giovane Leopardi che così immagina l’Italia, nella medesima ode.
E questa, ch’era sì di piacer pronta,
tosto che lui intese,
più nel dolor s’accese,
dicendo: "A te non duol de li occhi miei?".
45Poi cominciò: "Sì come saper dei,
di fonte nasce il Nilo picciol fiume
quivi dove ’l gran lume
toglie a la terra del vinco la fronda:
sovra la vergin onda
50generai io costei che m’è da lato
e che s’asciuga con la treccia bionda.
Questo mio bel portato,
mirando sé ne la chiara fontana,
generò questa che m’è più lontana".
Il momento in cui la prima di questa donne si presenta sa di solenne e ricalca la scena in cui, davanti al re, si presentava un vassallo, appunto; scena di vita feudale, più che comunale.
Dante vagheggia ancora un ideale cortese, in politica come in poesia? Così sarebbe. Chiunque, tramite Amore, che possa parlargli di Drittura (Giustizia), la cui assenza era per il poeta motivo di dolente e acuto e vispo e terribile angoscia personale e sociale (per la sua Firenze e per l’Italia).
Drittura, che si presenta, presenta sua figlia e la figlia di sua figlia. Dalla Giustizia nasce (così si interpreta da parte dei più) la Legge positiva ( di carattere universale) e poi la Legge umana (storica e circostanziale).
55Fenno i sospiri Amore un poco tardo;
e poi con gli occhi molli,
che prima furon folli,
salutò le germane sconsolate.
E poi che prese l’uno e l’altro dardo,
60disse: "Drizzate i colli:
ecco l’armi ch’io volli;
per non usar, vedete, son turbate.
Larghezza e Temperanza e l’altre nate
del nostro sangue mendicando vanno.
65Però, se questo è danno,
piangano gli occhi e dolgasi la bocca
de li uomini a cui tocca,
che sono a’ raggi di cotal ciel giunti;
non noi, che semo de l’etterna rocca:
70ché, se noi siamo or punti,
noi pur saremo, e pur tornerà gente
che questo dardo farà star lucente".
E io, che ascolto nel parlar divino
consolarsi e dolersi
75così alti dispersi,
l’essilio che m’è dato, onor mi tegno:
ché, se giudizio o forza di destino
vuol pur che il mondo versi
i bianchi fiori in persi,
80cader co’ buoni è pur di lode degno.
Larghezza e Temperanza sono le altre nate, da Amore. Il mondo, dunque, è sobillato: né Amore si rispetta più, né la Larghezza e la Temperanza, né la Giustizia e la Legge universale e la Legge umana.
A questo punto, dice il poeta, che io sia in esilio mi è vanto, ché non faccio parte di coloro che calpestano queste virtù. Se è esiliato non ha perso l’onore e né lo vorrà perdere se, quando gli proporranno un disonorevole ritorno a Firenze preferirà non accettare e non barattare la propria dignità di uomo, prima che di poeta.
E se non che de li occhi miei ’l bel segno
per lontananza m’è tolto dal viso,
che m’have in foco miso,
lieve mi conterei ciò che m’è grave.
85Ma questo foco m’have
già consumato sì l’ossa e la polpa,
che Morte al petto m’ha posto la chiave.
Onde, s’io ebbi colpa,
più lune ha volto il sol poi che fu spenta,
90se colpa muore perché l’uom si penta.
Sono per la lettura del Cosmo (in Contini): Dante qui non può riferirsi al generico peccato originale dacché il verso d’esordio di questa excusatio purificationis si apre col “s’io ebbi colpa” che da un lato è enigmatico per la voluta complessità analitica del congiuntivo, dall’altro ammette la possibilità che la colpa ci sia stata. Né si trascuri il fatto che se un uomo non si lava resta sporco anche domani, così che uno che non lava la colpa e cerca di cancellare il passato lo porterà addosso: “più lune ha volto il sol poi che fu spenta”, stesso problema ermeneutico del “se”, “se colpa muore perché l’uom si penta”.
Canzone, a’ panni tuoi non ponga uom mano,
per veder quel che bella donna chiude:
bastin le parti nude;
lo dolce pome a tutta gente niega,
95per cui ciascun man piega.
Ma s’elli avvien che tu alcun mai truovi
amico di virtù, ed e’ ti priega,
fatti di color novi,
poi li ti mostra; e ’l fior, ch’è bel di fori,
100fa disiar ne li amorosi cori.
La prima delle due chiuse pare copiare l’Evangelio di Giovanni e come a dire, non aggiungete e non sottraete nulla. Poi rivolge l’ammonimento più classico che poeta possa rivolgere alla propria canzone, “tratta con gente degna di te non con le persone volgari” (ma il concetto di nobiltà, abbiamo detto, era adesso senz’altro universale).
Canzone, uccella con le bianche penne;
canzone, caccia con li neri veltri,
che fuggir mi convenne,
ma far mi poterian di pace dono.
105Però nol fan che non san quel che sono:
camera di perdon savio uom non serra,
ché ’l perdonare è bel vincer di guerra.
Altra chiusa, ove la prima non bastasse: l’uccellare della canzone con bianche penne, il cacciare della canzone con neri veltri non può e non deve che portare alla critica politica.
I bianchi, i neri, le lotte per la supremazia all’interno del Comune e le lotte per l’autonomia all’interno delle sfere ecclesiastiche e dei ruoli amministrativi nell’Impero. Periodaccio, quello che Dante si trova a vivere, ma proprio per ciò chiede alla canzone di volare con “bianche penne”, come il sentimento dei bianchi dovrebbe fare (volare anche perché i Bianchi sono in esilio, e dunque per arrivare a tutti loro e rammentare loro la ragione del loro esilio, la mancanza di Giustizia di Firenze ed eventualmente quella di ognuno); chiede alla canzone di cacciare con neri veltri, cioè rivolgersi anche ai Neri, ai suoi nemici, perché si convertano a questa virtù che tutti hanno allontanato perché si indirizzino a Giustizia con il loro governo.
Infatti, nelle sue missive, Dante non si sperava di ritornare a Firenze in modo onorevole? Non era questa, dunque, un’esortazione al Bene fatta ai suoi vecchi nemici (ora che Dante capiva che tutti gli uomini sono interpreti delle idee universali, come capirà meglio nella Commedia!).
Dante rimprovera ai Neri di non perdonarlo, ma egli, oramai fatto saggio dagli eventi della vita e dalla pietà divina, li perdona.
Il perdono, ha scoperto, è la più alta vittoria. è pronto, Dante, per quel viaggio che sarà la più grande avventura intrapresa da un uomo e riferita con una così grande quantità e qualità di versi da essere, a tutt’oggi, insuperata e, se non per grazia di Dio, insuperabile.
SE VEDI LI OCCHI MIEI DI PIANGER VAGHI
Se vedi li occhi miei di pianger vaghi
per novella pietà che ’l cor mi strugge,
per lei ti priego che da te non fugge,
4Signor, che tu di tal piacere i svaghi;
Sonetto-preghiera. Un nuovo caso di pietà mi fa piangere e se tu, Signore, vedi i miei occhi pieni di lacrime, per la pietà che questo evento (Arrigo VII) mi strugge, ti prego di intervenire.
con la tua dritta man, cioè, che paghi
chi la giustizia uccide e poi rifugge
al gran tiranno, del cui tosco sugge
8ch’elli ha già sparto e vuol che ’l mondo allaghi,
Invoca, dunque, la “Tua dritta man” (“diritta via”). Che la Tua diritta mano paghi (dia ricompensa, naturalmente in senso peggiorativo, cioè dia quello che hanno meritato, punisca, fletta) chi uccide la giustizia e scappa dal grande tiranno, del cui veleno (tosco) succhia (sugge) (la persona che ha ucciso la giustizia) perché ha già spartito (diviso le cose) e vuole che il mondo si allaghi.
Il fatto di ricompensare (di pagare) è l’unico elemento ironico di questi versi altrimenti tragici. Gli ultimi, invece, saranno “sacerdotali” “ecclesiastici”.
Non concordo con il Contini, per cui per “novella pietà” si parlerebbe dell’ostilità papale ad Arrigo VII. Io, come sposto, credo si tratti di qualcuno che abbia agito per “il gran tiranno”. Si tratta di Carlo di Valois, che ha agito per Bonifacio VIII o al più di Sciarra Colonna (o di XXX) che ha agito, in questo caso, per il re di Francia.
Per la volontà di allagare il mondo, Dante si rifà al noto sonetto dell’Angiolieri.
e messo ha di paura tanto gelo
nel cor de’ tuo’ fedei, che ciascun tace:
L’interpretazione data mi sembra opportuna anche per questo riferimento alla paura, lo schiaffo di Anagni, la prigionia del Papa, “nel cuore dei tuoi fedeli”, riferimento a Pietro, che ognuno è rimasto sbigottito e senza parole.
11ma tu, foco d’amor, lume del cielo,
questa vertù che nuda e fredda giace
levala su vestita del tuo velo,
14ché sanza lei non è in terra pace.
Però se l’uomo rimane senza parole e un gran tiranno compie tali empietà Tu, Fuoco d’amore (che bellissima e dolcissima descrizione di Dio, tanto semplice e francescana quanto efficace e visionaria; tu, luce del cielo, questa virtù (la Drittura, la Giustizia – la ricompensa di cui si parlava prima) levala su, vestila di dignità. C’è un tono, come accennavo, che mi pare sacerdotale (essendo tutto il sonetto una omelia-preghiera): il tono pietoso e fiducioso sacerdote-poeta che invoca giustizia da Dio, come un profeta dell’Antico Testamento o un San Paolo nelle carceri. Senza la Giustizia Divina…, che è il segno più tangibile della presenza di Dio nel mondo e nella storia, che è stata stigmatizzata dalla venuta di Cristo e dalla sua promessa di ritorno nella Parasceve, nello Spirito di Dio; senza la Giustizia Divina, si diceva, non c’è pace in terra.
Allora, se la comunità di fedeli sconvolta da un evento così inquietante e terribile, è assimilabile alla prima comunità cristiana, a quegli Apostoli che, morto Gesù, (la giustizia uccisa di prima), non hanno voglia né coraggio di dire nulla e di uscire allo scoperto.
Il verso finale è, invece, un invito alla pace in terra, un “venga il tuo Regno” che un Dante rinato recita, dal suo esilio stoicamente sopportato, in nome della Giustizia e per contribuire ad essa.
DOGLIA MI RECA NE LO CORE ARDIRE
Doglia mi reca ne lo core ardire
a voler ch’è di veritate amico;
però, donne, s’io dico
parole quasi contra a tutta gente,
5non vi maravigliate,
ma conoscete il vil vostro disire;
che la beltà d’Amore in voi consente,
a vertù solamente
formata fu dal suo decreto antico,
10contra ’l qual voi fallate.
Io dico a voi che siete innamorate
che se vertute a noi
fu data, e beltà a voi,
e a costui di due potere un fare,
15voi non dovreste amare,
ma coprir quanto di biltà v’è dato,
poi che non c’è vertù, ch’era suo segno.
Lasso! a che dicer vegno?
Dico che bel disdegno
20sarebbe in donna, di ragion laudato,
partir beltà da sè per suo commiato.
Omo da sè vertù fatto ha lontana;
omo no, mala bestia ch’om simiglia.
O Deo, qual maraviglia
25voler cadere in servo di signore,
o ver di vita in morte!
Vertute, al suo fattor sempre sottana,
lui obedisce e lui acquista onore,
donne, tanto che Amore
30la segna d’eccellente sua famiglia
ne la beata corte:
lietamente esce da le belle porte,
a la sua donna torna;
lieta va e soggiorna,
35lietamente ovra suo gran vassallaggio;
per lo corto viaggio
conserva, adorna, accresce ciò che trova;
Morte repugna sì, che lei non cura.
O cara ancella, e pura,
40colt’hai nel ciel misura;
tu sola fai segnore, e quest’è prova
che tu se’ possession che sempre giova.
Servo non di signor, ma di vil servo
si fa chi da cotal serva si scosta.
45Vedete quanto costa,
se ragionate l’uno e l’altro danno,
a chi da lei si svia:
questo servo signor tant’è protervo,
che gli occhi ch’a la mente lume fanno
50chiusi per lui si stanno,
sì che per gir ne convene a colui posta,
ch’adocchia pur follia.
Ma perché lo meo dire util vi sia,
discenderò del tutto
55in parte ed in costrutto
più lieve, sì che men grave s’intende;
ché rado sotto benda
parola oscura giugne ad intelletto;
per che parlar con voi si vole aperto:
60ma questo vo’ per merto,
per voi, non per me certo,
ch’abbiate a vil ciascuno e a dispetto,
ché simiglianza fa nascer diletto.
Chi è servo è come quello ch’è seguace
65ratto a segnore, e non sa dove vada,
per dolorosa strada;
come l’avaro seguitando avere,
ch’a tutti segnoreggia.
Corre l’avaro, ma più fugge pace:
70oh mente cieca, che non pò vedere
lo suo folle volere
che ’l numero, ch’ognora a passar bada,
che ’nfinito vaneggia!
Ecco giunta colei che ne pareggia:
75dimmi, che hai tu fatto,
cieco avaro disfatto?
Rispondimi, se puoi altro che nulla.
Maladetta tua culla,
che lusingò cotanti sonni invano!
80Maladetto lo tuo perduto pane,
che non si perde al cane!
ché da sera e da mane
hai raunato e stretto ad ambo mano
ciò che sì tosto si rifà lontano.
85Come con dismisura si rauna,
così con dismisura si distringe:
questo è quello che pinge
molti in servaggio; e s’alcun si difende,
non è sanza gran briga.
90Morte, che fai? che fai fera Fortuna,
che non solvete quel che non si spende?
se ’l fate, a cui si rende?
Non so, poscia che tal cerchio ne cinge
che di là su ne riga.
95Colpa è de la ragion che nol castiga.
Se vol dire "I’ son presa",
ah com poca difesa
mostra segnore a cui servo sormonta!
Qui si raddoppia l’onta,
100se ben si guarda là dov’io addito,
falsi animali, a voi ed altrui crudi,
che vedete gir nudi
per colli e per paludi
omini innanzi cui vizio è fuggito,
105e voi tenete vil fango vestito.
Fassi dinanzi da l’avaro volto
vertù, che i suoi nimici a pace invita,
con matera pulita,
per allettarlo a sé; ma poco vale,
110ché sempre fugge l’esca.
Poi che girato l’ha chiamando molto,
gitta ’l pasto ver lui, tanto glien cale;
ma quei non v’apre l’ale:
e se pur vene quand’ell’è partita,
115tanto par che li ’ncresca
come ciò possa dar, sì che non esca
dal benefizio loda.
I’ vo’ che ciascun m’oda:
chi con tardare, e chi con vana vista,
120chi con sembianza trista
volge il donare in vender tanto caro
quanto sa sol chi tal compera paga.
Volete udir se piaga?
Tanto chi prende smaga,
125che ’l negar poscia non li pare amaro.
Così altrui e sé concia l’avaro.
Disvelato v’ho, donne, in alcun membro
la viltà de la gente che vi mira,
perché l’aggiate in ira;
130ma troppo è più ancor quel che s’asconde
perché a dicerne è lado.
In ciascun è di ciascun vizio assembro,
per che amistà nel mondo si confonde;
ché l’amorose fronde
135di radice di ben altro ben tira,
poi sol simile è in grado.
Vedete come conchiudendo vado:
che non dee creder quella
cui par bene esser bella,
140esser amata da questi cotali;
che se beltà tra i mali
volemo annumerar, creder si pone,
chiamando amore appetito di fera.
Oh cotal donna pera
145che sua biltà dischiera
da natural bontà per tal cagione,
e crede amor fuor d’orto di ragione!
Canzone, presso di qui è una donna
ch’è del nostro paese;
150bella, saggia, e cortese
la chiaman tutti, e neun se n’accorge
quando suo nome porge,
Bianca, Giovanna, Contessa chiamando:
a costei te ne va chiusa ed onesta;
155prima con lei t’arresta,
prima a lei manifesta
quel che tu se’ e quel per ch’io ti mando;
poi seguirai secondo suo comando.
AMOR, DA CHE CONVIEN PUR CH’IO MI DOGLIA
Amor, da che convien pur ch’io mi doglia
perché la gente m’oda,
e mostri me d’ogni vertute spento,
dammi savere a piangere come voglia,
5sì che ’l duol che si snoda
portin le mie parole com’io ’l sento.
Tu vo’ ch’io muoia, e io ne son contento:
ma chi mi scuserà, s’io non so dire
ciò che mi fai sentire?
10chi crederà ch’io sia omai sì colto?
E se mi dai parlar quanto tormento,
fa, signor mio, che innanzi al mio morire
questa rea per me nol possa udire;
ché, se intendesse ciò che dentro ascolto,
15pietà faria men bello il suo bel volto.
Io non posso fuggir, ch’ella non vegna
ne l’imagine mia,
se non come il pensier che la vi mena.
L’anima folle, che al suo mal s’ingegna,
20com’ella è bella e ria
così dipinge, e forma la sua pena:
poi la riguarda, e quando ella è ben piena
del gran disio che de li occhi le tira,
incontro a sé s’adira,
25c’ha fatto il foco ond’ella trista incende.
Quale argomento di ragion raffrena,
ove tanta tempesta in me si gira?
L’angoscia, che non cape dentro, spira
fuor de la bocca sì ch’ella s’intende.
30e anche a li occhi lor merito rende.
La nimica figura, che rimane
vittoriosa e fera
e signoreggia la vertù che vole,
vaga di se medesma andar mi fane
35colà dov’ella è vera,
come simile a simil correr sole.
Ben conosco che va la neve al sole,
ma più non posso: fo come colui
che, nel podere altrui,
40va co’ suoi piedi al loco ov’egli è morto.
Quando son presso, parmi udir parole
dicer "Vie via vedrai morir costui!".
Allor mi volgo per veder a cui
mi raccomandi; e ’ntanto sono scorto
45da li occhi che m’ancidono a gran torto.
Qual io divegno sì feruto, Amore,
sailo tu, e non io,
che rimani a veder me sanza vita;
e se l’anima torna poscia al core,
50ignoranza ed oblio
stato è con lei, mentre ch’ella è partita.
Com’io risurgo, e miro la ferita
che mi disfece quand’io fui percosso,
confortar non mi posso
55sì ch’io non triemi tutto di paura.
E mostra poi la faccia scolorita
qual fu quel trono che mi giunse a dosso;
che se con dolce riso è stato mosso,
lunga fiata poi rimane oscura,
60perché lo spirto non si rassicura.
Così m’hai concio, Amore, in mezzo l’alpi,
ne la valle del fiume
lungo il qual sempre sopra me se’ forte:
qui vivo e morto, come vuoi, mi palpi,
65merzé del fiero lume
che sfolgorando fa via a la morte.
Lasso! non donne qui, non genti accorte
veggio, a cui mi lamenti del mio male:
se a costei non ne cale,
70non spero mai d’altrui aver soccorso.
E questa sbandeggiata di tua corte,
signor, non cura colpo di tuo strale:
fatto ha d’orgoglio al petto schermo tale,
ch’ogni saetta lì spunta suo corso;
75per che l’armato cor da nulla è morso.
O montanina mia canzon, tu vai:
forse vedrai Fiorenza, la mia terra,
che fuor di sé mi serra,
vota d’amore e nuda di pietate;
80se dentro v’entri, va dicendo: "Omai
non vi può far lo mio fattor più guerra:
là ond’io vegno una catena il serra
tal, che se piega vostra crudeltate,
non ha di ritornar qui libertate".
Ultimo aggiornamento (Martedì 22 Gennaio 2013 11:49)