Vito Lorenzo Dioguardi - Blog

Libripdf.com
Libri pdf
Frasi celebri
http://www.frasicelebri.it/argomento/poesia/
http://www.frasicelebri.it/citazioni-e-aforismi/frasi/amore/
Italian English French German Portuguese Russian Spanish Turkish
Entra nel sito



Libripdf.com
Libri pdf
Home Home Blog Blog LA NOVITA' DEL DOLCE STIL NOVO E LA POESIA CHE CAMBIA IL MONDO

LA NOVITA' DEL DOLCE STIL NOVO E LA POESIA CHE CAMBIA IL MONDO


Share

 

Sebbene settecento anni dopo molta gente avrebbe creduto che le poesie non potessero cambiare il mondo, all’epoca dei fatti, nei secoli XIII e XIV, si iniziava a ricredere alla poesia come una delle più alte forme che la cultura umana possa raggiungere. E se non tutti gli autori sono stati coscienti di mutare in maniera indelebile non solo il corso della storia poetica ma anche, di riflesso, quello del giudizio morale su un’intera società e condizionarne le sorti, bisognerà dire che così tanto si radicheranno motivi di contingenza politica a motivi di consacrazione culturale da non potere più prescindere l’uno dall’altro.

Se tutti i commentatori della storia letteraria italiana delle origini hanno riconosciuto l’importanza del diverso sfondo sociale e del tessuto economico-morale in cui scriveva un Jacopo da Lentini, un Guittone o un Guinizzelli, si dirà che è appunto con l’innesto di una più solida classe borghese, adesso anche in grado di “fare” cultura e non solo di “comperarla”, si verificheranno i presupposti storici per la realizzazione di una letteratura che diventava sempre più laica, tuttavia conservando centrale l’interesse per la religiosità ma svincolandosi dal controllo pressoché totale sulla scrittura esercitato fino a mezzo secolo prima dalla Chiesa.

Questa laicizzazione della cultura, che è stato un obiettivo raggiunto dalla politica sveva del XIII secolo.

A questa laicizzazione della cultura non poteva sottrarsi l’interesse degli esperimenti comunali nella Toscana e nell’Emilia del tempo. E se non a caso è ancora un notaio a segnare un nuovo inizio della letteratura, è importante stabilire che, se da un lato i modi di dire, il lessico, le forme cambieranno, si addolciranno, si territorializzeranno, sarà proprio la nuova idea della società a spingere Guinizzelli e tutti gli altri dietro di lui a “modernizzare” i concetti più arcaici e tipici della oramai superata realtà feudale.

Modernizzazione, questa, non esente, (lo si accennava), da ragioni cogenti, ma forse proprio da questi ha preso il via.

Guinizzelli è bolognese, di una Bologna che è guelfa, in aperta campagna militare con la Foggia federiciana. (Foggia, ricordo, è la capitale effettiva del Regno, laddove Napoli è quella culturale e Palermo quella legale). Il resto vien da sé.

 

 

 

GUIDO GUINIZZELLI

 

Guinizzelli scrive una di quelle canzoni destinate a cambiare il corso della storia. Che egli ne sia consapevole, non è dato sapere.

Piuttosto l’occasione gli viene sì per la lode di una donna ma principalmente per discutere di un valore che da poco era tornato a far parlare tutti, persino gli imperatori: il tema della nobilità.

 

La nobiltà era, nell’Alto Medioevo, una virtù di classe sociale, una virtù per pochi.

Federico II, intervenendo sulla questione, aveva invece lanciato una nuova interpretazione: è virtù di coloro che hanno potere e ricchezza da molto tempo. In Federico, dunque, l’esegesi è familiare.

In ultimo arriva Guinizelli, un notaio-poeta, che con la sua Al cor gentil rempaira sempre Amore compie una piccola rivoluzione culturale, un rovesciamento dei valori feudali e una radicale opera concettuale di democratizzazione per cui tutti gli uomini “possono” essere nobili, se meritano tanto onore con l’esempio virtuoso della propria esistenza e amando secondo le leggi del Creatore.

In questa occasione-opportunità-capacità che è la nobiltà di cuore, il sentire rettamente, ovvero ciò che già Jacopone proponeva come tema centrale della sua produzione, c’è la novità dottrinale della canzone.

 

A proposito di essa, Asor Rosa scrive: “Dichiarazione di ´poetica´: cioè un’esposizione di come si deve intendere il vero amore, di come si deve guardare alla donna, di come si deve amare”.

 

 

Al cor gentil rempaira sempre amore

come l’ausello in selva a la verdura,

né fe’ amore anti che gentil core,

né gentil core anti ch’amor natura:

 

L’amore ritorna sempre al cuore gentile

come l’uccello (torna) tra il verde del bosco,

né la natura creò amore prima del cuore gentile

né il cuore gentile prima che l’amore.

 

Oltre all’aggettivo gentile, di cui diremo e che è l’elemento tradizionale a cui si dà nuova luce con una nuova interpretazione, sono i due verbi rempaira e fe’ a dovere attirare la nostra attenzione.

Il perché è presto detto: il provenzale rempairare, ritornare a dimora conveniente, ha un valore fortissimo, dal momento che vi si esprime un’azione esclusiva. Insomma, l’amore dove voi che vada? Torna sempre dal cuore gentile! Non c’è via di scampo. E come se l’amore sia il figliuol prodigo della parabola.

Avviene il paragone con l’uccello che torna al suo nido fra gli alberi del bosco.

Qualche calcolo e capiamo che il cuore gentile è il nido dell’amore.

Dopo la spiegazione dell’osservazione poetica c’è un assunto che prepara la spiegazione scientifica e razionale: la natura non creò prima l’uno e poi l’altro ma li creò contemporaneamente. Altro sillogismo, dunque amore e cuore gentile sono gemelli e inscindibili.

 

 

ch’adesso con’ fu ‘l sole

sì tosto lo splendore fu lucente,

né fu davanti ‘l sole;

e prende amore in gentilezza loco

sì propiamente

come calore in clarità di foco.

 

Prova scientifica, si diceva; verificabile subito e subito riscontrabile. Appena il sole fu creato splesse, e non fu creato il sole prima della luce, che un sole spento che poi si accende non è verosimile. Siamo qui non ad un gioco artificioso di immagini ma ad una domanda esistenziale incredibilmente acuta (volgarizzata dal nostro “è nato prima l’uovo o la gallina”), l’origine delle cose del Creato. Volendo, si potrebbe accostare questa lirica al Cantico delle Creature di Francesco. Il Santo di Assisi, però, lodava l’Altissimo, generatore della Creazione, mentre Guinizzelli spiega razionalmente la Creazione e la coesistenza di cose e fenomeni.

Così la similitudine tra l’amore che entra nel cuore gentile e il calore che “abita” la luce.

 

La terza strofa mantiene questo tono didascalico adattando esempi della scienza contemporanea alla trattazione sull’amore.

Il fuoco dell’amore nel cuore gentile si accende come la virtù nella pietra preziosa. Guinizelli continua spiegando, che la stella avvalora la pietra preziosa ma non prima che il sole la ingentilisca (la faccia gentil cosa).

Dopo che l’ha ingentilita la stella dona alla pietra il suo valore.

Così per il cuore che è fatto dalla natura eletto (asletto) e gentile viene fatto innamorare da una donna a guisa di stella.

La corrispondenza “magica” della virtù della stella e della donna sono estremamente importanti per calibrare la valenza che l’immagine della donna assume nel complesso disegno guinizzelliano.

 

Quarta strofa. Ancora prove pratiche: l’amore è nel cuore gentile come il fuoco in cima alla torcia (doplero) splende libero, chiaro e sottile.

Allo stesso modo la prava natura ostacola, si scontra con l’amore (recontra) come l’acqua con il fuoco caldo, a causa della freddezza (dell’acqua e del cuore).

Non si potrebbe ravvisare qui un’altra importante lettura di Leopardi in quella prava natura che guinizzellianamente parlo indica il cuore fello, non gentile, vile, che non prova un vero amore, falso e corrotto, subdolo e immorale, e leopardianamente parlando confluire nella costruzione mitografica della Natura matrigna?

L’amore nel cuore gentile prende stanza (rivera) – ma prende dimora (memoria forse di quel “se in voi dimora Amore – evangelico!) come luogo abituale (per so consimel loco), come il diamante nella miniera di ferro.

 

Il sole ferisce il fango tutto il giorno: vile rimane il fango e il sole non perde calore.

Disse l’uomo altero: “Gentile per schiatta sono!” (cioè, sono gentile- nobile- virtuoso per nascita).

Qui Asor Rosa riferisce questa frase agli alteri in generale. Io credo ci sia quel riferimento a Federico II di cui ho detto prima e su cui non torno.

Quest’uomo assembro al fango e il valore gentile (la nobiltà d’animo, la virtù individuale e “spirituale” “morale”) al sole:

perché l’uomo non deve dare fede (credito) al fatto che la gentilezza si acquisti senza coraggio e in dignità d’eredità se con la virtù non dimostra (di avere) cuore gentile, come l’acqua si lascia attraversare (porta) dal raggio, e il cielo contiene le stelle e il loro splendore.

 

Dunque è la quarta strofa a definire la dottrina sociale sulla gentilezza (nobiltà d’animo) guinizzelliana.

 

Nella successiva dice: splende nella intelligenza del cielo Dio Creatore, più che nei nostri occhi il sole: (ella ) L’intelligenza del cielo intende il suo fattore (il Creatore, Colui che la fece) oltre il cielo (oltre il cielo visibile, oltre la facoltà fisica della vista), e il cielo muovendosi (volgiando) a Lui suole obbedire;

e consegue, immediatamente, dal giusto Dio il beato concepimento (dell’ordine del cielo) così come dovrebbe, per davvero, la bella donna fare (ordinare il cuore gentile dell’amante/amato), poi che negli occhi splende della sua gentilezza-nobiltà d’animo, quel talendo che mai (l’uomo) si distolga dall’obbedire.

 

C’è qui, dopo la trattazione scientifica iniziale, minuziosa e precisa, dopo la polemica con l’uomo altero che crede a una gentilezza per ius sanguinis, c’è qui la dolcezza della bella donna che eleva l’uomo, gli occhi della donna che sono cieli rotanti dell’amore di Dio che ingentiliscono, nobilitano l’uomo, lo rende perfetto, lo rendono migliore, lo vivificano, lo riscaldano…

 

Chiusa: Donna, Dio mi dirà: “Che cosa hai presunto?” (Cioè cosa volevi fare?), stando la mia anima davanti a Lui.

“l cielo passasti e davanti a Me venisti e desti a un amore vano ( in quanto terreno non in quanto necessariamente vile) persino la mia somiglianza (la somiglianza del Mio amore):

che a Me solo convengono le lodi e alla Regina del degno regno, mercé la quale cessa ogni frode”.

 

DirGli potrò: “Ebbe un aspetto angelico (come di creatura) che fosse del Tuo regno (per cui ho pensato che fosse del Tuo regno): non errai (non sbagliai, non commisi errore) se in lei posi il mio amore (se l’amai, se mi nobilitai grazie a lei).

 

Se Asor Rosa preferisce tradurre quel “non mi fu fallo, s’in lei posi amanza” come “ non fu colpa mia se rivolsi a lei il mio amore” io ritengo che Asor Rosa non abbia centrato l’obiettivo.

Io, leggendo quest’ultimo verso, in ragione di tutta la canzone, traduco come segue e come ho già detto: “Io non errai se in lei posi il mio amore”.

E questa traduzione porta a una premessa e due considerazioni: tutto il tono della canzone, sebbene parli lodevolmente di Dio (ma solo a metà componimento) pare di un uomo più legato al terreno che al celeste. Si aggiunga che nella canzone i riferimenti pronominali a Dio sono scritti in minuscolo.

Invece questa premessa necessita della chiarificazione delle due considerazioni: primo, l’uomo può – e questo giustificherebbe la premessa – considerarsi un po’ superbo e altero (se accettiamo la mia traduzione. Essere davanti a Dio e dirGli: “Io non commisi errore, io non errai” possiamo considerarlo per lo meno azzardato. E non aveva Guinizzelli, qualche verso prima rimproverato l’alterigia di un uomo (Federico?) e condannato la sua interpretazione di nobiltà?

E la stessa canzone, che disquisisce della natura del vero Amore e della nobiltà d’animo che senso avrebbe che poi un uomo non è “timorato di Dio” (non in accezione medievale ma kierkegaardiana)? Riuscirebbe “gentile” Guinizzelli, così facendo? Allora?

Allora probabilmente la risposta è nella seconda considerazione e nelle parole finali.

Guinizzelli è sicuro di arrivare davanti a Dio, al cospetto del Creatore. Chiedo: come fa ad arrivare davanti al cospetto di Dio un non salvato?

C’è da dire che la scena e la domanda di Dio ricordano la domanda a Caino “Cosa hai fatto?”.

Qui però un Guinizzelli sicuro di arrivare da Dio, quindi di salvarsi, non è accusato da Dio, ma è interrogato da Dio. Dio gli chiede la ragione di quella sua fede in un amore terreno, quasi da divinizzare quell’amore e quella donna. E qui l’intelligenza dell’uomo che si eleva a Dio dà una risposta incredibilmente amorevole: innanzitutto la donna è bella tanto da parere un angelo e questa bellezza confonde l’uomo, ma il suo amore non è vano da appoggiarsi solo alla bellezza esteriore ma a quella interiore della donna (la nobile, la gentile). La donna incarna “il cuore gentile” è un ideale incarnato! Per questo Guinizzelli ha amato la donna, per salvarsi e giungere al cospetto di Dio!

Non è stato il Signore, poco prima a lodare Maria, Regina del regno dei cieli, grazie alla quale ogni frode cessa. Dunque, se grazie a Maria si scampa la frode, grazie alla donna gentile si scampa il peccato e quell’amore è amore vero in quanto non vano, non terreno, non materiale, ma sinonimo di una elevazione morale dell’uomo che lo porta a elevarsi al cielo, lo porta a pensare al cielo!

 

La risposta di Guinizzelli a Dio è la risposta che il Signore stesso vuole sentire, quello di un uomo che si salva e che ringrazia la propria salvatrice.

 

In fondo la gentilezza è amare e amare è salvarsi a vicenda.

 

 

(per ulteriore conferma rivedere i versi “e ciò che lassù bello a lei somiglio”, “e fa ‘l de nostra fe’ se non la crede” sull’opera evangelizzatrice della donna, “null’omo po’ mal pensar fin che la vede” sulla purezza di lei e dell’amor suo per lei, “non se dev’omo tener troppo altero” sulla ripetuta accusa contro gli alteri, i superbi –il che non renderebbe superba la prima parte della risposta ma una difesa poi spiega nel proseguio del discorso).

 

 

GUIDO CAVALCANTI

 

Amico di Dante e buon poeta da tutti riconosciuto, Guido Cavalcanti de Cavalcante ha lasciato una discreta quantità di poesie su cui potere ragionare.

 

La canzone Fresca rosa novella, ad esempio, che è stata variamente fonte di ispirazione (o si potrebbe dire cava) per alcuni illustri successori, Francesco e Giacomo su tutti.

 

Francesco riprende il verso 11 quando Guido loda monna Primavera (la sua amata Giovanna, come dice Dante nella Vita Nova) e si augura che gli uccelli cantino la lode di lei “e cantine gli augelli/ ciascuno in suo latino/ da sera e da matino”, mentre Giacomo copia pari pari il ventesimo “Angelica sembranza” (se si esclude la “modernizzazione” nella forma “sembianza) nella canzone Alla sua donna.

 

Altre liriche sono:

  • Avete ‘n voi li fior’ e la verdura
  • Biltà di donna e di saccente core
  • Chi è questa che ven, ch’ogn om la mira
  • Vedete ch’i son un che vo piangendo
  • Voi che per li occhi mi passaste ‘l core
  • Noi sian le triste penne isbigotite
  • Una giovane donna di Tolosa
  • Perch’i’ no spero di tornar giammai
  • I’ vegno ‘l giorno a te ‘infinite volte
  • In un boschetto trova’ pasturella
  • Guata, Manetto, quella scignutuzza

 

 

LAPO GIANNI

 

  • Amor, eo chero mia donna in domino

 

CINO DA PISTOIA

 

  • Tutto ch’altrui agrada a me disgrada
  • Io fu’ ‘n su l’alto e ‘n sul beato monte