LA TRASMISSIONE DEL SAPERE E LA GRANDE POESIA POLITICA DEI SICULO-TOSCANI
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I SICULO-TOSCANI
Per capire la ragione per cui alla dissoluzione del regno svevo non corrispose la polvere dei secoli a far obliare l’esperienza della scuola siciliana, bisogna rifarsi ai dati storici che ci confermano la crescita della Toscana, per l’iniziativa che le grandi famiglie andavano assumendo per quanto riguardo i commerci.
I toscani viaggiano molto e commerciano anche in Francia, da cui riportano i canzonieri in lingua d’oc della Provenza, e in Sicilia (o in genere nel Regno normanno-svevo) dai quali traggono la conoscenza di parecchi cantari.
In più l’attività politica e le cancellerie di Federico II e dei ghibellini sparsi in tutta Italia facevano sì che la produzione letteraria nata nel Mezzogiorno si diffondesse in maniera relativamente sistematica attraverso corrispondenze epistolari e omaggi.
Per tanto, quando la Storia decreterà l’amara sorte degli Svevi, gran parte delle poesie sicule erano state già tradotte in toscano e studiate e apprezzate venivano “adattate” a quella terra in una sorta di tralignamento culturale così come era avvenuto dei cantari francesi in precedenza.
E questa potenza della cultura, di adattarsi, di trasmettersi e, a Dio piacendo, di non morire mai, ma anzi di avvicinare gli uomini di studio e di umanità anche se i tempi, la politica e gli eventi li vorrebbero dividere, è stato uno dei grandi pregi dei funzionari svevi prima e degli ecclesiastici e dei laici toscani poi.
GUITTONE D’AREZZO
Ahi Deo, che dolorosa è canzone del disinganno. Parlando a Dio il poeta dice che è stato preso da angoscia e gran pena tanto che non può nemmeno parlarne. Chi l’ha così conciato? Amore! “Ahi Deo, ch’è falso nomo/ per ingegnare l’omo/ che l’efetto di lui cred’amoroso!”.
E non finisce qua. Scrive Guittone: “Venenoso dolore/ pien di tutto spiacere,/forsennato volere…”.
L’amore in Guittone ha un’accettazione tutt’altro che positiva.
C’è addirittura una spiegazione etimologica dietro la velenosità mortifera del nome: “Amore” starebbe per “a morire, di sentimento che conduce alla morte”.
Di questa stretta unione di Amore e Morte si ricorderà molti, tra cui il Leopardi della poesia omonima.
Dopo avere rimproverato il nemico Amore lo biasima e lo loda: lo biasima “che miso al gioco m’hai/ov’ho perduto assai;” e lo loda: “e laudar che non mai vincer m’hai dato;/ perch’averia locato/ lo core in te giocando, e or lo sloco”.
Guittone, però, è noto per la canzone politica Ahi lasso, or è stagion di doler tanto.
Chi capisce s’addolora, è la chiave interpretativa per capire l’incipit. E s’addolora di Montaperti, la battaglia con la quale i ghibellini, aizzati da Manfredi, hanno sbaragliato le armate dei guelfi nel 1260. Certo, sì. Però non vi risulta ridimensionata, troppo ridimensionata la portata di quella “stagione”? Io reputo che in quella “stagione” ci sia il dolore non solo per una battaglia, sebbene ad essa la poesia continui a fare riferimento, ma a tutto quel periodo di decadenza e di continua lotta che ha falcidiato i Toscani e il partito guelfo e di cui Montaperti è soltanto l’apice.
“Vedendo l’alta Fior sempre granata” è un verso molto ben strutturato, molto educato.
Divergo dall’interpretazione di Contini che trovo in Asor Rosa, per cui “granata” starebbe per “fruttifera” e ritengo che “granata” stia per “arrossata –di sangue” perita, appunto per le troppe guerre, assieme all’ “onorato antico uso romano”.
Tutta la “lamentazione” della prima strofa, se si eccettua l’evocazione a Dio, ricorda l’incipit dell’ All’Italia di Leopardi.
Seconda strofa: il ricordo nostalgico di quella Firenze che “era leale”, “che ritenea modo imperiale” e che pareva “far volesse impero/ sì como Roma già fece,…”.
Valida la spiegazione di Asor Rosa della simbologia del Fiore e del Leone che Guittone usa per parlare di quella Firenze che andò oltre l’immaginato.
Simbolo della città, infatti, oltre al giglio è appunto l’animale africano, da loro detto Marzocco.
Quindi parla del Leone, maltrattato dai grandi cittadini, quelli saliti ai più alti onori, e del perdono e del nuovo ferimento. In questa strofa, un po’ congetturante, in verità, le alterne vicende della città.
Sia le lotte intestine che le grandi lotte per il predominio sulla regione, Montalcino, Montepulciano, Maremma, Sangimignan, Poggibonzi e Colle, Volterra, sono le tappe di quest’espansione fiorentina votata alla guerra. Quante volte la Martinella suono, infatti?
Il giudizio di Guittone è quello dell’aggredito che riconosce nella guerra l’origine del male sia fiorentino che toscano tutto. “E tutto ciò li avene/ per quella schiatta che più ch’altra è folle”.
E se già questa belligeranza fiorentina era sintomo di un mal governo che doveva allargarsi a suon di vittorie, pure l’ironia guittoniana prede di mira la follia fiorentina che non si avvede né di vergogna né di libertà. Sostiene Guittone che è folle chi si dirette alla signoria altrui, specie se in casa.
“A voi che siete ora in Fiorenza dico,/ che ciò ch’è divenuto, par, v’adagia;/ e poi che li Alamanni in casa avete,/ servite’i bene…” e continua dicendo, fatevi mostrare le loro spade con le quali hanno ferito i visi dei vostri padri e ucciso i vostri figli. E mi fa piacere che dobbiamo sovvenzionarli, perché gli imperiali ebbero gran da fare, una grande fatica con l’intascarsi le vostre grandi monete.
Di questa impresa dovete ringraziare i Conti e gli Uberti, continua Guittone, se ora avete in vostro possesso Siena (che, si capisce, non è in realtà in loro possesso essendo la stessa Firenze possesso degli Alamanni).
Pistoia e Colle e Volterra devono ora recarsi a Firenze o condurre denaro a Firenze, il Conte Rosso, Aldobrandino dei Conti di Soana ha perso il controllo sulla Maremma, Montalcino sta sicuro senza le mura. Pisa teme il castello di Ripafratta (dato dai fiorentini ai lucchesi) e il perugino si augura che non gli togliate il Trasimeno “e Roma vol con voi far compagnia” continua a sbeffeggiarli l’aretino.
Quest’ultima non è la prima Roma dell’incipit ma piuttosto, a me pare dal contesto, la Roma papalina, la Roma armigera che presto interverrà proprio per togliere la libertà a Firenze.
Pare che abbiate onore e signoria, comando.
“Ciò che disiavate/ potete far, cioè re del toscano” accusa.
E la chiusa della canzone è molto nota. Ancora ironicamente, si appella ai baroni di tutta Italia (forse per grado di importanza?) con la voce appellante della stessa Firenze: “Baron lombardi e romani e pugliesi/ e toschi e romagnoli e marchigiani,/ Fiorenza, fior che sempre rinovella,/ a sua corte v’appella,/ che far vol de sé rei dei Toscani,/ dapoi che li Alamani/ ave conquisi per forza e i Senesi.
Perché “fior che sempre rinovella”? Forse per dire che cambia spesso partito, che, a seguito delle lotte intestine che la divorano cambia spesso politica.
Firenze si vuole far Regina dei Toscani (prima si era complimentato con la città, ora lo annuncia, quasi con la solennità degli squilli di tromba, a tutta Italia), dopo che avrà conquistati per forza gli Alemanni e i Senesi oppure in seguito al fatto che ha conquistato…
Di Guittone, però, è degna di nota anche la canzone della conversione, annus domini 1265.
Ora parrà s’eo saverò cantare.