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BREVE INTRODUZIONE ALLA POETICA DELLA SCUOLA SICILIANA DI FEDERICO II


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Oltre alle solite accezioni, per cui la scuola siciliana è stata culla di istanze di un Regno magnanimo, connubio tra il Cristianesimo occidentale e le filosofie orientali, oltre a dire che i Siciliani hanno rifatto Provenza a Palermo e hanno fondato la poesia volgare italiana, sembrerà più interessante notare come i valori che tutti gli autori riconosceranno comuni tra loro sono dei valori sostanzialmente “svevi”, dove per valore svevo intendo dire di mescolanza tra il vecchio tono epico dei cicli bretoni portati nel Mezzogiorno dai Normanni e i Minnesaung, quelle poesie d’amore teutoniche che interpretavano al meglio la più nota e più elengante tradizione provenzale.

 

Questi valori “svevi” di cortesia e di gentilezza, sebbene poi trapiantati in Toscana e a Bologna abbiano sortito diversi effetti (in ragione anche di una maggiore frammentarietà dell’esperienza e, però, di una migliore stabilità politica, che sempre giova alle arti).

Alberto Asor Rosa sottolinea, infatti, il carattere “fortemente chiuso e corporativo” della scuola.

 

Il campione della scuola siciliana è senz’altro il Notaro, Jacopo da Lentini. Traduttore della canzone di Folchetto di Marsiglia, Madonna, dir vo voglio, è eccelso rimatore nella canzonetta Meravigliosamente, per poi trapassare i secoli diventando inventore del sonetto, la forma poetica più usata dagli Italiani (almeno sino al secolo scorso).

 

 

Analizziamo la canzone Meravigliosamente.

 

Meravigliosamente

un amor mi distringe

e mi tene ad ogn’ora.

 

La meraviglia è la prima particolarità dell’amore. Se non c’è meraviglia non c’è amore.

Sebbene noi ora potremmo anche fantasticare sul significato di questo avverbio, messo lì, all’inizio della poesia, e rifarne una sottile motivazione teologico-politica, non mi sembra che sarebbe molto più che una teoria e non vorrei che fosse bislacca come le tante che trovo in giro.

Con tutto ciò la storia della critica letteraria è un fiume in piena di parole e, se non pensassi che le mie parole valgano niente o non fossero nocive, aggiungere le mie riflessioni non migliorerà né peggiorerà lo stato di inedia in cui vivono e gli studi letterari e la letteratura stessa.

Dicevo di questa teoria: oltre alla meraviglia per l’amore per la propria donna, l’avverbio “meravigliosamente” potrebbe rifarsi ai passi evangelici in cui gli Ebrei erano incantati e provavano meraviglia di Gesù, ad esempio quando lo trovarono dodicenne al Tempio che interrogava i Dottori della Legge o poco più che trentenne quando meravigliava tutti con le risposte sante alle quali, senza parole, condannava a turno farisei, scribi e sadducei…

Eppure quel meravigliosamente potrebbe essere una diretta lode al suo imperatore, anch’egli meraviglia dei suoi tempi, a quel Federico detto sì “puer Apuliae” ma più noto con l’appellativo di “Stupor mundi”, stupore, meraviglia del mondo.

Se questa fosse l’intenzione di Giacomo non so e non posso sapere, è una teoria e nient’altro, ma ora torniamo al testo.

Il cuore è al centro della riflessione del rimatore-notaio. Il cuore è luogo noto a egli solo, nel quale “porto la tua figura”, dice alla donna.

Altra e più centrale figura, colonna di tutto il sentire suo e dei suoi “colleghi” è la fede in Dio.

Proprio lo stabilimento relazionale più metafisico è alla base della fortuna delle liriche siciliane.

Quel loro amore va al di là delle apparenza, prende il cuore, diventa “fede”.

Infatti più avanti dirà:

come quello che crede

salvarsi per sua fede,

ancor non veggia inante.

 

Questa è la meraviglia dell’amore, che è la meraviglia della fede!

 

 

E se la vergogna di un amore così alto e puro diventa motivo di segretezza di quel sentimento, quasi di estradizione del sentimento privato dalla molestia degli sguardi (e dei giudizi) pubblici.

Solo se si pensa a quanto ritorno avrà questo motivo, basterebbe ciò a dimostrare come la fresca generosità dell’autore si presti a “esempio” di una pratica d’amore di importante particolarità.

Dante e Petrarca arriveranno proprio tramite questa scelta jacopiana a definire il loro amore non come facevano i provenzali, nascondendo il nome della donna dietro senhal, ma attribuendosi la libertà nella dolcezza del nome della lode intera della donna, che sia Beatrice o che sia Laura.

Dunque, è proprio la lezione dei Siciliani a suonare interessante perché variante e non pedissequa ripetizione dei motivi in lingua d’oc.

 

GUIDO DELLE COLONNE

 

 

Nel De Vulgari Eloquentia Dante parla di questa canzone di cinque strofe che è Ancor che l’aigua per lo foco lassi di Guido delle Colonne.

 

L’immagine dell’acqua fredda riscaldata dal fuoco e la lode del vaso che permette alla fiamma di non spegnersi e all’acqua di non seccarsi è una fortunata e, diremmo, perfetta analisi di quanto due nature possa incontrarsi e, talvolta, rimanere integre mescolando però gli effetti delle proprie azioni.

Cosicché Amore in Guido delle Colonne ha un riscontro originalissimo.

Il poeta, che senza Amore si sentirebbe acqua fredda e ghiacciata, dunque priva di vera vita (assunto che l’Amore scaldi il cuore con la sua festosa passione), è appunto il sentimento a rendere luce e calore all’animo umano.

Il dato scientifico “che fa lo foco nascere di neve” è la convinzione errata che dal ghiaccio si ottenesse il vetro.

 

La seconda strofa rilegge, invece, il topos della poesia d’amore siciliana, già elaborato da Giacomo da Lentini, “Amore è uno spirito d’ardore/ che non si pò vedire,/ ma sol per li sospiri/ si fa sentire in quel ch’è amadore:”.

 

Il resto della canzone non mantiene, a mio giudizio, spunti di interesse, a parte la ripresa dell’altro luogo comune della calamita.

Tuttavia Guido è un altro esponente fresco e genuino, abbastanza meno “teologico” di altri, molto più concreto, che testimonia la fioritura dell’ars poetica in una reggia e in un regno che ne hanno saputo coltivare l’interesse.

 

 

RINALDO D’AQUINO

 

Per fin’amore vao sì allegramente, scrive Rinaldo d’Aquino.

 

Asor Rosa descrive questa canzone come “probabilmente la più provenzaleggiante” e aggiunge “vi si espongono gli schemi di un vassallaggio d’amore fondato quasi sulla istituzionalizzazione… di rapporti tra amante e amata…”.

Innanzitutto a me pare rilevante il primo verso in cui si tratta di un “fin’amore” che dà allegria; il secondo verso è ancora una volta il più classico dei versi siciliano “ch’io non aggio veduto” ma questa volta non per dimostrare l’incorporeità pur viva del sentimento ma per dire di non avere veduto nessun uomo contento quanto lui. E il concetto è ripetuto, a sottolinearne l’importanza.

Addirittura il poeta dichiara, siamo nella seconda strofa, che è tanto gioioso e lieto per questo amore e tanto si sente preso dal “fin’amore” che crede che nessun altro uomo potrebbe pareggiarlo in gioia e quindi sostituirlo nel cuore dell’amata.

Ora, dunque, si vede come sia fondamentale chiarire cos’è questo “fin’amore” che nel verso primo era unito alla gioia, adesso alla certezza dell’amore.

Io penso che “finezza” si possa richiamare a “gentilezza” ma con un’attenzione particolare per una virtù che ingentilisce e al tempo stesso consolida nell’amante posizione quasi teoretiche sul concetto d’amore.

Insomma, questo “amore fine” coinvolgerebbe, a mio giudizio, non solo la sfera emozionale quanto quella intellettiva dell’uomo, non solo la “mente” ma “l’intelligenza” dell’uomo. Questo suffragherebbe il verso 28: “de lo suo fin’amore al meo pareggio”.

La strofa successiva, infatti, per quanto problematica nell’interpretazione, chiarisce che è “altrui ingannare è gran fallenza,/ in mia parvenza” ( ingannare qualcuno è un grande errore, a mio parere) e che “non vol che sia per donna meritato/ più d’uno aritenere;” (non vuole- l’amoroso usaggio, la consuetudine amorosa – che sia meritato da una donna più d’uno alla volta).

Insomma, spiega Rinaldo, il preso d’amore, una sorta di antiamante, il preso d’amore non vale niente se la donna ritiene di tenersi l’amante.

Chi perde l’amante, garanzia di amore ineguagliabile, perché provato, affinato nella vicenda d’amore, va in malaffare e dimentica i doveri imposti dal “signoraggio” dell’amore.

In effetti, è qui codificato, come avvertito prima, questa sorta di decalogo dell’amante-cavaliere e della donna-dama.

 

Ci troviamo in presenza del concetto di “signoria”, concetto vassallatico, di tipico stampo feudale, concetto di alto virtuosismo, esportato nel concetto di amore: la donna diventa roccaforte di virtù, cavaliere che rifugge l’assedio di altri.

Quindi dice più avanti: “non credo che senza l’aiuto di Amore potrei ricevere più di quanto merito”.

Notiamo: prima Rinaldo aveva detto – ned ho temenza –(non ho paura); ora dice – ned ho credenza (non ho fede, non credo). La differenza la fa Amore. Con Amore al mio fianco non temo nulla, senza Amore temo e, anzi, non credo assolutamente che la buona vicende d’amore si concluda in quel rapporto di signoraggio e nel volere della signoria che è stato il dato concettuale più limpido espresso in precedenza.

 

Diversissimo, invece, è il caso dell’altra famosa canzone di Rinaldo d’Aquino: Già mai non mi riconforto. Canzone politica e insieme documento storico con giudizio morale contemporaneo sulle Crociate, questa lirica svolge un ruolo fondamentale per capire con quanta trepidazione si vivesse in Europa, in Italia e in particolare nel Regno svevo, regno multietnico, laico e avanzato sotto molti punti di vista, al centro del Mediterraneo, terra di contatto e terra di valore che è il naturale porto di partenza per ogni possibile Crociata. Però qui è discusso sia il valore della crociata, sia il valore dei crociati e il valore della fede. La voce che parla è quella dell’amante del crociato che parte.

Per un siciliano affermare “Già mai non mi conforto/ né mi voglio ralegrare” è già sintomo di un disvalore assoluto. La gioia, infatti, la gioia d’amore, la gioia in sé come virtù del proprio sentire, si può dire che fosse al centro della poetica dell’intera scuola. Perciò dire “né mi voglio ralegrare” ha una portata poetica e psicologica precisa e pesante.

Le navi sono pronte a salpare e la gente è pronta a salpare “in terra d’oltremare”. La donna si chiede cosa egli debba fare.

La causa di questo suo dubbio è che “egli”, l’amato, il crociato, se ne va e non glielo manda a dire e il poeta si sente ingannato.

“Ingannata” è aggettivo qui che rimanda alla lirica precedente, dove si diceva che l’amante e la donna che vogliano un amore fino, un amore vero, devono comportarsi da signori, da cavalieri.

Questo sentirsi ingannato è una condanna di un comportamento anticavalleresco, antiepico e dunque antiamoroso.

Da questo verso penso di potere dimostrare quanto grande fosse la stima di Rinaldo per il “vassallaggio” amoroso o “signoraggio”. Questo verso illumina la sua poetica.

Quindi dice che egli sospira notte e dì e non si sente né in cielo né in terra. Il Petrarca di questa inquietudine farà un Canzoniere.

La terza strofa della canzone è interessante: “Sanctus, sanctus, sanctus Deo, che ‘n la Vergine venisti, salva e guarda l’amor meo, poi da me lo dipartisti”. Una preghiera in preda al soffocamento e alla disperazione, in preda al desolamento seguito all’abbandono. La donna si rimette al suo Signore, come un vassallo si rimetterebbe al feudatario. “Salva e guarda l’amore meo”, dice. Salvare l’amore nonostante la partenza rende questa richiesta e questa strofa e l’intero sentimento di questa lirica degna di molta lode. Si tratta di un sentimento amoroso che diventa religioso, diciamo di un religioso non soltanto formale ma autentico, patito.

Alla strofa quarta troviamo che la protagonista, abbandonata, si abbandona al più grande sconforto. Dice, infatti, che “la croce salva la gente” ma che a lui “la croce fa disviare”, cambiare, sbagliare strada.

“E non mi val Dio pregare” conclude.

Stiamo al culmine del lancinante dolore che ha afferrato l’amante.

“O croce pellegrina, perché mi fai così soffrire” si chiede.

 

Quinta strofa, entra in scena l’imperatore.

“Lo imperadore con pace/ tutto mondo mantene/ ed a me guerra face,/ che m’a tolta la mia spene”.

Anche l’imperatore (persino l’imperatore) è oggetto della critica furente dell’innamorata.

A tutto il mondo dà pace è, però, un elogio diretto (e propagandistico) della politica imperiale come pacifica e salda (cosa che in realtà non fu, soprattutto durante il periodo della crociata federiciana).

L’“Oit alta potestate”, che la prima volta era rivolta a Dio, questa volta è rivolta (ancora per motivi politici) a Federico.

Più avanti di ricrede, quest’amante annebbiata dal dolore, e se prima aveva dichiarato che pregare Dio non valeva nulla (ma forse quasi a sottolineare che l’imperatore e il suo amato non potevano “fatalmente” sottrarsi all’alto impegno della Crociata – e qui ricorda un po’ il Virgilio della Didone), ora prega il “padre criatore” di condurre in porto le navi che vanno a servire la “santa croce”.

 

La chiusa è rivelatrice di tutto il sentimento della lirica.

“Però ti prego, Dolcetto,/ tu che sai la pena mia,/ che me ne face un sonetto/ e mandilo in Soria. Ch’io non posso abentare/ la notte né la dia:/ in terra d’oltremare/ sta la vita mia!”.

Chiusa speranzosa, la speranza di avere un sonetto (che qui può indicare sia una poesia dedicatoria, sia il ricevere lettere e notizie del suo stato – cosa più verosimile, se si pensa che Dolcetto va a far guerra o almeno così pensan tutti).

 

 

RE ENZO

 

Probabilmente la più “romantica” delle figure dei poeti siciliani è rappresentata da re Enzio, re di Sardegna, amato figlio di Federico, caduto preda dei Bolognesi nella battaglia di Fossalta, 1249.

Enzio era, oltre che un buon militare, un buon poeta, come attestano parecchie voci contemporanee.

Nella sua poesia troviamo aspetti del tutto consueti ma svolti in maniera principesca, elegante, sempre con molta partecipazione.

Una sua conosciuta canzone è S’eo trovasse Pietanza.

Chiede Pietà, con l’iniziale maiuscola, Enzo.

In una prigione bolognese ipotizza di trovare Pietà in una “incarnata figura” (come non pensare a Gesù, verbo incarnato?, ma il re-poeta non lo dice schiettamente e il mistero rimane).

Se potesse, dunque, chiedere Pietà a qualcuno troverebbe alleggerimento alla gran pena di cuore che deve sopportare, la prigionia.

E trova forza e ragione “in fra la mente pura” di pregare.

Poi, però, si tempesta di domande. Se vaneggia, se spera di trovare compassione, commiserazione.

Il suo cuore, in realtà, (si dice) non crede di trovare questi sentimenti… si sente più sventurato di un uomo innamorato (e si sottolinei come l’amore potesse, per i siciliani, essere fonte di gioia, mentre in Enzo è sventura).

La sua Pietà sarà crudele e spietata.

La seconda strofa è un lamento per quel “distino” che gli mostra la prefigurazione di una “pena e dogliosa morte/ ciascun giorno più forte,/ und’eo morir sento lo meo sanare”.

Della terza strofa trovo sublimi e poeticissimi i versi “giorno non ho di posa/ come nel mare l’onda”.

Quindi un assalto alla ragione: “Core, ché non ti smembri? Esci di pena e dal corpo ti parte”.

La condizione di prigionia rende più allettante la morte che la vita, il campare (termine sopravvissuto ai secoli nei dialetti meridionali).

Non c’è gioia né pensamento, possibilità di salvarsi attraverso una riflessione filosofica. C’è una sorta di annientamento della vita, in questi mesti versi di Enzo. Egli non trova nulla di valevole in una vita chiuso in cella, non vale la consolatio philosophiae.

(Tutti i ragionamenti che gli spiriti miei dividono, sono pene e dolore, senz’allegria, la quale non li accompagna).

Di questi interminabili dolori, di questa agonia, di questo supplizio, fortissima immagine è quella della perdita del “natural colore” e del cuore che “sbatte e lagna”.

Perché allora non muore se ha il cuore dissanguato, anticipa la domanda di molti lo stesso Enzo. Perché, egli risponde, in quel momento il cuore che reagisce nonostante questo immenso dolore dà prova della sua virtù.

 

La virtù che il suo cuore ha di uccidersi e guarire lo porta a pregare la Pietà perché lo chiami a sé, “in lei faccia riposo” e Merzé, la Grazia, perché si unisca a quella.

“Ché non m’è noia/ morir, s’ella n’ha gioia:” dichiara.

“ché sol viver mi place/ per lei servir verace/ e non per altro gioco che m’avegna”.

 

Re Enzo mostra una grande sensibilità umana, prima di tutto, quindi poetica, con l’uso sapiente di gallicismi che richiamino la tradizione. Alla fine del suo animo, che si può dire combattuto, si ha l’impressione che si affidi “guerrescamente, fieramente” alla Divina Provvidenza in veste della Pietà e della Merzé. E questo è interessante. Chissà che questa accettazione del destino, un’accettazione tutt’altro che facile e spontanea, fosse alla base della stessa ideologica spirituale della sua famiglia. Sarebbe un indizio per capire anche suo padre, in fondo, figura, come quella di Enzo, indescrivibile, perché o troppo denigrato dai nemici o troppo esaltato dagli amici.